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Celeste e il Generale filosofo XI capitolo


«Prima era medico, Diaulo,
 ora fa il becchino,
ricompone i cadaveri sul letto,
come quand'era medico»
(Marziale, I, 47)



Faustina Emilia quella mattina dedicò assai poco tempo alla propria acconciatura e alla scelta della stola. Ora che sua madre era via, a Baia in compagnia del suo giovane e aitante amante, la ragazza non si curava molto delle apparenze. Inoltre, dato che aveva anche in mente di mandare a monte il proprio matrimonio con un ricco patrizio alla quale era promessa da anni, non avvertiva più la necessità di farsi bella per qualcuno.
Lungi dall’aver preso quella decisione serenamente, cosa che le avrebbe imputato chiunque fosse a conoscenza della volitività del suo carattere, Faustina non aveva chiuso occhio per tutta la notte.
E la ragione della sua insonnia non era dovuta al ricco e abbondante banchetto che aveva consumato la sera precedente, né all’incerto futuro che le si sarebbe presentato dinnanzi non appena avesse comunicato l’annullamento delle nozze, e neppure ai sensi di colpa nei confronti di un uomo che si era sempre comportato nel migliore dei modi con lei. No, Faustina aveva continuato a rigirarsi nel letto del suo grazioso cubiculm per via di un sentimento mai sperimentato prima: l’angoscia. L’ultima lettera che Celeste le aveva scritto l’aveva colpita più di quanto avrebbe mai dato a vedere: la sua migliore amica aveva trovato l’amore in Dacia, e non importava che al momento non fosse pienamente ricambiato. Faustina aveva quindi riflettuto sulla vacuità dei propri sentimenti verso un uomo che avrebbe sposato solo per mera convenienza, e l’ansia per il futuro le aveva fatto passare una notte insonne. Perché in quel futuro vedeva solo una via, già tracciata prima di lei da sua madre, costellata da tradimenti, bugie e divorzi.
Con l’unica compagnia di questi pensieri, Faustina uscì a piedi per le strade di Roma, così affollate da non poter avanzare se non sgomitando, e così piene di vita da farle dimenticare per un momento i problemi che la propria le stava riservando.
Desiderando vedere gente nuova, nonostante non avesse per niente fame, Faustina entrò in una popina affrescata da poco con scene allegre e dai colori vivaci. Al bancone e sulla porta molti stazionavano consumando in fretta zuppe o pasticci di carne, pane, formaggio, prosciutto o bevendo vino annacquato o cerevisia[1]. La ragazza andò a sedersi in fondo alla stanza, ignorando le occhiate curiose di cui era oggetto, e ordinò una minestra di legumi. Vicino a lei un uomo, il cui volto era in ombra per la poca luce presente, sorseggiava lentamente la sua coppa di piperatum[2].
Faustina udì una cameriera di chiare origini africane pronunciare il nome dell’uomo, Marco, con familiarità: la donna sfoggiò il suo sorriso più seducente, per indurlo a chiedere un servizio aggiuntivo,ma il cliente misterioso le rispose a monosillabi e lei, indispettita, lo apostrofò con insulti tali che avrebbero fatto arrossire ogni ragazza romana di buona famiglia. Faustina, per non sembrare troppo indiscreta, spostò lo sguardo sugli altri clienti della popina: alcuni muratoti incitavano due giocatori di dadi a un tavolo lì vicino: un moro e un greco annoiato. Un energumeno col volto segnato da cicatrici palpava il sedere della cameriera. Una donna vestita di nero sputò nel proprio piatto, disgustata da ciò che aveva appena mangiato, e iniziò a sbraitare contro l’oste.
Faustina lasciò un asse sul proprio tavolo, come pagamento per la minestra che aveva appena toccato,  mentre il proprietario della popina, un uomo di mezza età che nulla faceva per nascondere l’evidente calvizie, si avvicinava all’uomo silenzioso seduto al tavolo accanto al suo.
«Non dovresti stare qui» lo sentì dire.
Marco, non rispose, ma si alzò dalla sua sedia barcollando e le finì addosso.
Ora che poteva vederlo chiaramente, Faustina constatò che era più bello di quanto pensasse e dalla foggia degli abiti apparteneva sicuramente alla plebe.
«Stai bene?» gli domandò, accorgendosi che faticava a restare in piedi: fu lesta a sorreggerlo come poté, per impedire che cadesse.
«Scotta» disse al proprietario della popina.
«Portalo fuori di qui» rispose brusco quello, tornando zoppicando al suo bancone e dimenticandosi di loro.

Adriano si sentiva di molto superiore a lei, fin da quando erano piccoli. Suo fratello considerava le donne degli esseri inferiori, ma Paolina sapeva bene che dietro tutto quel malcelato disprezzo verso il genere femminile si nascondeva un’insensata paura. Sì, il Greco aveva paura delle donne, perché  soltanto loro avevano i mezzi e l’astuzia per mandare all’aria tutti i suoi piani. E, tra tutte le donne dell’Urbe, quella che Adriano temeva di più era proprio lei, Paolina, sua sorella. L’unica capace di mettere al mondo un erede al trono e rubargli ciò che per ora era considerato suo di diritto.
Con regolarità, quindi, suo fratello le scriveva delle lettere dalla Dacia, informandosi sul suo stato di salute e subissandola di sottili lusinghe. Suo marito Serviano aveva capito molto prima di lei i crucci e le angustie di Adriano: il principe ereditario non godeva della stima di suo zio e sarebbe diventato Imperatore solo in assenza di altri pretendenti.
Paolina spazzolò con dolcezza i bei capelli della sua bambina: aveva solo sei anni, ma già il padre l’aveva promessa in sposa ad un membro della ricchissima famiglia Salinatore.

Nella sua avanzata fortunata Traiano riuscì a recuperare tutte le perdite che l’esercito romano aveva subito da parte dei Daci: armi, uomini, e persino un vessillo di una coorte pretoriana sconfitta nell’86.
Celeste vedeva Caius solo di notte, quando lui insisteva perché dormisse nella sua tenda, e non insieme alle altre donne, poche mogli di legionari e fin troppe lupe[3]. La ragazza sgattaiolava  da lui appena faceva buio e non si vedeva nessun soldato in giro, e quasi sempre lo trovava assorto nella lettura di qualche papiro di filosofia.
Appena la sentiva entrare però, le sorrideva, posava il libro, e annunciava che era ora di andare a letto. La ragazza, allora, si stendeva accanto a lui e gli ricopriva di baci il viso, spaventata al pensiero che anche quella notte il sonno avrebbe vinto sui suoi desideri e l’alba, traditrice, sarebbe giunta troppo presto a dividerli. Come puntualmente accadeva.
«Buon giorno». Lui era già sveglio, chissà da quanto, e tra i suoi papiri di filosofia, come sempre.
I suoi occhi verdi si posarono su di lei e rimasero a fissarla a lungo, come se non sapesse bene come rispondere.
«Tieniti lontana dai guai». Disse infine.
Celeste alzò gli occhi, sbuffando, e lanciando via le coperte.
«Siamo in guerra. Non dimenticarlo mai». Riprese a raccomandarsi lui.
«Sembri mio padre». Fu l’unica, scocciata, risposta di Celeste.
«Non bisogna abbassare la guardia, soprattutto in momenti come questi in cui la vittoria sembra a portata di mano». Continuò il generale, ignorando il commento della giovane.
«Sì, sì, il nemico quando è disperato è capace di fare qualsiasi cosa, me lo ripeti ogni mattina da mesi!” sbottò lei, alzandosi.
«Solo perché tu non mi dai ascolto e fai sempre quello che ti pare. Non sei a Roma! Devi stare attenta!» si alterò lui.
«Mi fai controllare già da Emilio, non ti basta?» esclamo lei di malumore, incrociando le braccia sotto il seno.
Caius si avvicinò a lei fino a porre le mani sulla vita sottile. «Quel buffone non riuscirebbe a proteggere nemmeno sua madre. Se potessi ti terrei accanto a me tutto il tempo, di modo da non poterti mai perdere di vista» le disse piano, giocando con i suoi capelli.
«Perché?» domandò lei arrossendo.
Lui scosse la testa e iniziò a farla sospirare con i suoi baci. Ma non era questa la risposta che Celeste anelava di sentire.

Faustina ebbe modo di rimpiangere la scelta di uscire di casa a piedi. Ora, con lo sconosciuto che a stento si reggeva in piedi grazie al suo aiuto, doveva necessariamente trovare un mezzo di trasporto. Maledisse l’ordinanza, emanata più di un secolo prima da Cesare e ancora in vigore, secondo cui non potevano circolare carri durante il giorno. Sebbene la giovane avesse avuto modo, in passato, di constatare di persona quanto i conducenti[4] speculassero eccessivamente sulla tariffa, in quel momento avrebbe pagato qualsiasi cifra per poter disporre di un mezzo di trasporto che le consentisse di raggiungere la taberna medica[5] più vicina.
Invece dovette farsi largo tra viuzze strette e in mezzo a insulae alte più di sette piani, in barba ai decreti imperiali in materia di edilizia. Alcune erano abbellite da rampicanti a far da cornice alle finestre o ad avvolgere i balconi, nascondendo dove l’intonaco si era scrostato, altre con i panni dai colori vivaci stesi ad asciugare dai balconi di legno che sporgevano sopra la strada, creando lunghe ombre sulle pareti. A un certo punto Faustina lasciò il ragazzo appoggiato a uno dei tanti alberi che adornavano i caseggiati e, preoccupata delle condizioni dello sconosciuto, corse a chiamare il medico, la cui ubicazione le era stata indicata da un venditore ambulante di pesci.
Uno schiavo fu mandato dall’auricularius ad aiutarla a trasportare il malato. Il dottore, dopo avergli riservato una rapida occhiata, gli fece bere un infuso dall’odore terribile a base di erbe curative, e gli prescrisse una nottata di riposo.
Faustina lasciò quindi il ragazzo a riposare: di lui sapeva solo che si chiamava Marco e che non era un nobile eppure si era data tanta pena per lui. La ragazza giustificava quel suo strano comportamento adducendo come scusa l’assenza di impegni, ma come motivare tutta la preoccupazione?

Dopo la chiacchierata con Publius, Celeste aveva iniziato ad avere degli incubi in cui la misteriosa “matrona rossa” tornava, con l’arco in spalla, pronta ad uccidere nuovamente il suo generale. A volte in quei sogni la donna assumeva le sembianze di Adilah, la principessa dacia, rossa di capelli come le vesti della sposa mercenaria.
Alla ragazza avrebbe certo giovato parlarne con Caius, ma i timori di una sua reazione negativa e di mettere nei guai il fedele attendente, dovendo dichiarare la fonte, frenavano ogni sua curiosità e ansia immotivata.
Allo stesso modo, ora la misoginia del generale sembrava giustificata, e finalmente acquistava un senso, agli occhi di Celeste, la riluttanza dell’uomo a sposarla. E se Caius non avesse mai imparato a fidarsi di lei, cosa sarebbe successo? Avrebbe dovuto accettare di divenire la sua amante, e magari di sposare un altro uomo per salvare le apparenze? Sarebbe stata in grado di accettare una cosa del genere? A ogni modo, Celeste non poteva continuare a seguirlo in ogni battaglia e, dato che la campagna in Dacia, sembrava stesse volgendo al termine, avrebbe dovuto pensare bene a cosa dire e a cosa fare per legarlo a sé per sempre


[1] Cerevisia: era la birra, non molto apprezzata in realtà dai romani, ma piuttosto diffusa. La si serviva calda e schiumante.
[2] piperatum: cocktail molto richiesto, a base di pepe, estratti aromatici col miele, vino, e acqua calda.

[3] Lupe, lupa: erano le prostitute, il termine deriva da Lupanare, il bordello dell’epoca.
[4] Nell’antica Roma, i carri tenevano conto delle distanze percorse con l’aiuto di piccole pietre, lasciate cadere ogni tot passi. I tassametri funzionavano per mezzo di un meccanismo, direttamente collegato con l'asse di un carretto, che liberava piccole sfere. Alla fine del tragitto, il passeggero pagava in funzione delle sferette liberate.
[5] La taberna medica: Quello che noi oggi chiamiamo lo studio del medico nell'antica Roma non si distingueva dalle altre botteghe presenti nel foro che gli archeologi sono in grado di identificare solo per i reperti di strumenti medici ivi ritrovati.
L'arredamento era piuttosto semplice: cassapanche e cassette per gli strumenti medici, le medicine, teli e bende, anfore con acqua, olio e vino, due sedie e sgabelli e spesso anche un lettino. Nella completa mancanza di ospedali civili, vicino all'ambulatorio vi era una specie di lazzaretto per la degenza e l'osservazione dei pazienti operati.

Una vera e propria formazione all'arte della medicina non esisteva in Roma. Chiunque poteva dichiararsi medico e senza nessuna cognizione teorica o esperienza pratica aprire un ambulatorio.
Il medico nell'antica Roma era di solito un professionista "generico" che non aveva una precisa specializzazione, con l'eccezione di alcune grandi città dove esercitavano rari medici specialisti che divengono più numerosi a partire dal I secolo d.C. in tre settori della medicina: la chirurgia (chirurgus), l'oculistica (ocularius) e l'otorinolaringoiatria (auricularius). Alcuni come un tale Decimio Eros Merula di Assisi aveva una doppia specializzazione in chirurgia e oculistica e per questo motivo, come attesta un'iscrizione sul suo sepolcro, accumulò tanto denaro da lasciare il comune erede di una grossa donazione.

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