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STORIA: I romani e la schiavitù

Vi sono tre tipi di utensili:
quelli che non si muovono e non parlano;
quelli che si muovono e non parlano (animali),
e quelli che si muovono e parlano (schiavi).
(Gaio) 



Gli schiavi a Roma risultavano essere, paradossalmente, quasi la maggioranza della popolazione. La condizione schiavile dell’essere umano è una condizione che è sempre esistita e che tutt’ora, pur in forme diverse, sussiste. Sembra proprio che alcuni uomini non possano fare a meno di mostrare al resto del genere umano la loro supremazia sui propri simili. 
Accettata e regolamentata fin dal IV millennio a.C., la schiavitù è sempre stata una componente fondamentale delle società, specialmente di quelle arcaiche, senza la quale molte delle note e antiche grandi civiltà non avrebbero avuto modo di essere. Se, infatti, l’uomo di casa era al fronte a combattere per conquistare nuovi territori, lo schiavo rimaneva a coltivare la terra e a garantire al suo padrone il perpetrarsi della sua famiglia e dei suoi beni. 
La forma di schiavitù che più facilmente ci torna alla memoria è quella americana, prima degli indios da parte degli spagnoli e poi con la famigerata tratta degli schiavi dall’Africa per i proprietari terrieri degli Stati Uniti del Sud, per le coltivazioni di cotone e tabacco. 
La schiavitù di epoca antica, tutto sommato, non era poi così dissimile, anche se in epoca romana ha assunto proporzioni incredibili, non solo come numero di schiavi presenti nel territorio imperiale, ma anche come legislazione in merito. 
Ma veniamo un po’ a capo di questa cosa così controversa. 

Innanzitutto ricordiamo cos’è lo schiavo per un romano: lo schiavo è un attrezzo. È una res vivente, una cosa viva, ma pur sempre una cosa. Una proprietà. Bellissimo ed emblematica la presentazione degli schiavi nella serie TV “Roma”: dall’ancella di Servilia sempre presente, agli schiavi sottomessi di Azia frustati solo affinché la domina sfogasse i nervi, agli schiavi pubblici delle terme, allo schiavo personale di Cesare che è molto più libero di muoversi e di parlare di quanto si potrebbe pensare per uno nella sua condizione fino alla bella Irene che viene semplicemente trovata e ridotta in schiavitù dai servi di Pompeo e poi recuperata da Tito Pullo che infine la libera con l’intento di sposarla, cosa niente affatto strana per la società dell’epoca, specialmente tra il popolo. 
La schiavitù a Roma era quindi una cosa normale, camminare lungo le vie cittadine e non provare nulla alla fila di schiavi legati che si incrociano per strada diretti al foro rientra assolutamente nel quotidiano, anzi se noi vivessimo in quell’epoca facilmente il nostro occhio li valuterebbe attento: chissà che non si trovi qualcosa di interessante. Nella civiltà romana la condizione di schiavo rientrava in quella più generale dipendenza che il cittadino romano riservava allo straniero, l'uomo alla donna, il padre al figlio. 
È solo entrando in quest’ottica che si può vagamente comprendere cos’era la schiavitù nella Roma Antica. Comprendere, non approvare sia chiaro. 

Le cause della riduzione in schiavitù erano molteplici, ma le più diffuse erano le cause per debiti e le conquiste territoriali. All’epoca della sua massima espansione, poi, Roma commerciava in schiavi, per lo più del nord (germanici) e dell’est con le tribù di confine in una vera e propria tratta: i barbari al confine facevano razzie tra i clan rivali e vendevano ai mercanti di schiavi romani le prede così conquistate, pochi uomini perché erano quelli più difficili da sottomettere in quanto guerrieri e molte donne e bambini. 
Si poteva diventare schiavi anche a seguito di un naufragio o in seguito a una pena che comportasse la perdita della libertà personale come l’omicidio, la renitenza alla leva e l’evasione fiscale. La riduzione in schiavitù a seguito di una condanna era legata anche al fatto che a Roma Antica non esisteva un sistema carcerario: i rei e coloro che erano in attesa di giudizio venivano messi o nelle cisterne dell’acqua sotterranea entrate in disuso o in gabbie nelle zone del castra o della caserma dei vigili dette carcerus solo per il tempo necessario al loro trasferimento al foro dove sarebbero stati giudicati o al circo dove i reati più gravi venivano puniti con la morte (per la condanna di damnatio ab bestia – combattere a mani nude contro i leoni - o di damnatio ab gladio – combattere contro guerrieri esperti con solo un gladio). Ma questo era valido solo se non si accettava l’alternativa dell’esilio. 
Di contro, i popolani delle classi più povere potevano perdere lo status di cittadino e finire nella condizione schiavile anche per reati minori come furti o borseggi in quanto non in grado di pagare la pena pecuniaria prevista. 
Altre cause erano i rapimenti da parte dei pirati, come successe anche a Caio Giulio Cesare, o dai briganti per poi vendere i rapiti o anche i bambini che venivano semplicemente abbandonati per strada perché non riconosciuti dal padre o, cosa ancora peggiore, venduti dalle famiglie stesse perché troppo povere. 
Per lo stesso triste motivo si recavano a Roma componenti delle tribù nordiche che per sfuggire alla fame e alla carestia come migranti e finivano per porsi in servitù, cosa che spesso facevano anche gli esiliati politici dei paesi confinanti. 

Da notare come nel tempo la reale accezione del termine latino che indicava lo schiavo sia cambiata. Infatti, in latino schiavo si dice servus, ma gli storici, per distinguere il feudalesimo dallo schiavismo, usano "schiavo" per l'economia schiavile rivolta al mercato e "servo" per indicare l'economia di sussistenza basata sul servaggio o servitù della gleba. Finito il feudalesimo, la parola "servo" stava ad indicare una qualunque persona libera che prestava un servizio dietro compenso. 

Dalla riduzione in schiavitù, si passava dopo eventuali ore di viaggio in un carro che sembra più un serraglio alla vendita. Raramente poteva avvenire che alcuni schiavi venissero liberati durante questo tratto a causa della furbizia del mercante che, per poter pagare meno dazi e tasse, spesso non denunciava tutti gli schiavi che trasportava facendone passare per familiari alcuni. Se uno di questi schiavi denunciava la cosa ai militari e ai vigiles che incrociavano otteneva subito la libertà, una sorta di contrappasso per il mercante di schiavi sulla logica che se lui per primo non lo dichiara schiavo allora quello è un uomo libero. Purtroppo, però, la legge non era molto nota e gli schiavi o erano all’oscuro della cosa o venivano minacciati negli affetti se erano presenti anche dei familiari. 
La vendita avviene sempre sotto la sorveglianza di appositi magistrati che devono tutelare i profitti statali – assai rilevanti in questo mercato – derivanti da accise e da commissioni di vendita e si vendono solo gli schiavi che sono stati dichiarati all’entrata nel mercato. 
Molto spesso le contrattazioni avvenivano direttamente in strada, nelle botteghe, oppure al Foro dove gli schiavi venivano posti su dei palchi girevoli con una targa al collo che ne elencava qualità, difetti, conoscenza di latino e di greco e altri dettagli. 
Vi erano poi schiavi molto ambiti, generalmente ellenici, il cui prezzo poteva anche essere di molto superiore a quanto detto: erano schiavi di casa, dotti, usati come pedagoghi per i figli dei nobili o come dame di compagnia e ancelle delle ricche e annoiate matrone. Per questo genere potevano essere allestite delle vere e proprie aste anche se i mercanti di schiavi preferivano piuttosto una forma meno vistosa di compravendita che veniva quindi effettuata in luoghi chiusi ad accesso rigorosamente controllato e su invito. 
Lo schiavo, in quanto oggetto non veniva considerato diversamente e la sua umiliazione costante in queste fasi non veniva nemmeno presa in considerazione. Addirittura li si ornava a seconda della loro provenienza: i guerrieri sconfitti portavano una coroncina di rametti intrecciati in testa, gli schiavi provenienti dal mare venivano dipinti di bianco a un piede, gli schiavi “sessuali” venivano “vestiti” di foglie di edera e nastri… 
Il prezzo poteva variare parecchio, da pochi denarii (monete in argento) a parecchi aures (monete in oro), complessivamente la vendita media di uno schiavo garantiva un introito al mercante che poteva variare dai mille ai quattromila sesterzi per ogni esemplare, a seconda della sua bellezza, prestanza, forza fisica, dentatura, cultura, intelligenza, ecc. 
Considerando che all’inizio dell’età imperiale (sotto Ottaviano Augusto), un sesterzio valeva circa due euro attuali, ne conviene che uno schiavo era praticamente un bene di lusso. Eppure era un bene cui nessun buon cittadino, nemmeno un popolano, avrebbe potuto fare a meno di avere pena il suo “declassamento” sociale perché il non possederne nemmeno uno era indice di una degradante miseria. Insomma, come la differenza tra chi possiede o meno una macchina oggi… almeno, in Italia. 
Di contro, i nobili patrizi e i romani ricchi possedevano di media dai diecimila ai ventimila schiavi i quali, tra l’altro, contribuivano spesso a costo zero ad aumentare la ricchezza dei padroni: molti li acquistavano per rivenderli a prezzi maggiorati, altri li cedevano a grosse imprese in cambio di un affitto esattamente come quando noi andiamo a noleggiare un attrezzo da giardinaggio nei centri appositi. Si arrivò al punto, poi, che alcuni si misero ad allevare gli schiavi come si fa con gli animali da allevamento. 

Le mansioni degli schiavi sono le più disparate e i luoghi di destinazione erano in poche aree ben separate: campagna, città, mare, cave e miniere. 
La condizione peggiore, a differenza di quanto può sembrare, non era quello dello schiavo in miniera per l’estrazione dei metalli pregiati o alla cava, ma quella dello schiavo rurale. Anche essere messi ai remi delle grandi navi era considerato un mestiere migliore. 
L’essere passato dalla condizione di schiavo cittadino a schiavo rurale era vissuta come una tremenda punizione, quasi fosse una condanna capitale anche perché le condizioni di vita erano infime e il lavoro svolto estremamente duro e faticoso, nonché molto poco qualificato. 
Ovviamente l’area cittadina era quella più ambita per gli schiavi, che si mostravano essere anche quelli più costosi: saper svolgere un mestiere garantiva quasi sempre loro un posto in una bottega come artigiani, dai vasai agli stagnini, passando per fabbriche dei tessuti. Ma anche in città c’erano posti di lavoro poco qualificati e con condizioni di lavoro molto dure: dalle forge alle catene delle ruote dei mulini, alle fulloniche di tintura dei tessuti. 
Vi erano poi le categorie privilegiate, generalmente legate al lavoro domestico e non era infrequente che questi schiavi venissero trattati e considerati quasi come membri della famiglia: ecco che cuochi, camerieri, valletti e ancelle erano i posti migliori, ma c’erano schiavi per quasi ogni tipo di lavoro dai postini alle addette alla toeletta delle signore, ai pedagoghi e agli intellettuali, medici, chirurghi, bibliotecari senza tralasciare gli addetti alle scuderie che, se si pensa che il cavallo era un bene di lusso, dovevano sapere molte cose sugli animali dal trattarli all’addomesticarli al prendersene cura quando stavano male. 
In genere gli schiavi provenienti dall'oriente ellenistico erano adibiti a funzioni domestiche o artigianali cittadine, perché meno robusti e più acculturati dei loro colleghi italici, germanici, iberici. 

In materia legislativa gli schiavi, essendo delle cose o, meglio, degli attrezzi, non avevano alcun diritto. Anche se nel corso del tempo la condizione schiavile si è alleggerita e le condizioni di vita sono migliorate, all’inizio l’unica cosa che gli schiavi possedevano erano solo le responsabilità penali. 
Non poteva possedere cose personali e anche se poteva permettersi di comprarne non poteva comunque disporne come se fosse propria, ma solo dietro permesso del padrone. Anche il farsi una famiglia era vietato, inizialmente, agli schiavi e se già ne aveva una spesso veniva divisa durante la vendita. Se a uno schiavo veniva concesso il permesso di sposarsi e avere figli, era però sempre facoltà del padrone di venderli anche separatamente, cosa questa che non incentivava certo gli schiavi a crearsi degli affetti e dei legami stabili. 
Si ricorda solo un episodio di schiavi cui era permesso di avere rapporti sessuali e intrattenere una relazione stabile quindi fino anche a formare una famiglia ed è legato agli schiavi di Catone il Vecchio che fu l’unico a concedere questo permesso dietro un compenso che intascava personalmente. Tuttavia, la vicinanza costante in casa, specie se gli schiavi erano nati e cresciuti in quella stessa casa, portava i padroni a essere meno duri e a consentire, nel corso del tempo, ad avere stabili vite di coppia e a tenere con sé i nuovi nati: privilegio non da poco degli schiavi domestici. 
Gli schiavi non potevano essere difesi in tribunale e se anche per un qualsiasi evento rimanevano senza padrone essi rimanevano comunque schiavi. Un comportamento ingiusto del padrone poteva essere denunciato dallo schiavo che poteva rifugiarsi in Campidoglio ed esporre le proprie ragioni, ma non si hanno notizie su padroni puniti, al massimo redarguiti. Altresì, lo schiavo poteva rifugiarsi in un tempio e ottenere così l’asilo (tradizione questa rimasta anche nella successiva era cristiana), ma la situazione si poteva risolvere solo con la cessione dello schiavo a un altro padrone. 
In termini di legge nulla proteggeva, quindi, lo schiavo e se un cittadino ne uccideva uno proprio nessuno aveva nulla da ridire, mentre se ne uccideva uno di proprietà altrui era tenuto a pagare una sanzione amministrativa pari al valore di mercato dello schiavo. Ecco spiegato anche perché, in seguito, nei giochi gladiatori non si combatteva mai all’ultimo sangue, contrariamente a quanto per la maggiore si crede secondo la falsa propaganda hollywoodiana: un buon gladiatore costava troppo e indire dei ludi gladiatori all’ultimo sangue voleva dire pagare profumatamente il lanista per la perdita subita. Inoltre la legge stessa impediva questo genere di incontri: Augusto non ne voleva più di due all'anno; Tiberio e Claudio non ne organizzarono neanche uno; Nerone squalificò per 10 anni l'anfiteatro di Pompei. Solo nel IV sec. d.C. i giorni dedicati a queste lotte erano saliti a dieci l'anno. 
Nel corso del tempo, specialmente durante il periodo imperiale, sono state promulgate varie leggi a favore degli schiavi: anche se venivano usati a scopo sessuale e la legge stabiliva che stupro e adulterio potevano essere perpetrati solo tra persone libere, la libertà del padrone di uccidere i propri schiavi venne via via ridimensionata e non venne mai impedito loro di frequentare terme, popine, bagni pubblici, né di esercitare i riti religiosi secondo i costumi originari, benché per legge non fosse riconosciuto alcun culto religioso proprio. 
Ovviamente, c’era anche il retro della medaglia: malattia e vecchiaia. Quando uno schiavo diventava improduttivo per malattia o per vecchiaia veniva abbandonato a se stesso e lasciato, in pratica, morire lentamente di stenti. Fu con l’imperatore Claudio che venne imposta l’emancipazione degli schiavi ammalati abbandonati dai padroni e fu dopo Adriano che venne concesso loro di comprarsi la libertà grazie a piccoli risparmi e mance, sempre con il beneplacito del padrone. La condizione di schiavo artigiano comportava anche la possibilità di avere una propria attività i cui introiti venivano devoluti al padrone. Nel corso del tempo non fu infrequente invece un’inversione di tendenza e l’attività produttiva dello schiavo garantiva al padrone una sostanziosa percentuale sul ricavato che lasciava il resto allo schiavo. Grazie quindi anche a un proliferare di lavoro nero e introiti non dichiarati non era infrequente trovarsi nella condizione schiavile, ma più ricchi del proprio padrone. 
Nell’età imperiale Adriano tolse anche al padrone dello schiavo il diritto di vita e di morte, e Antonino Pio e Costantino considerarono omicidio l’assassinio del servo e punirono chi uccideva un figlio con le stesse pene di chi uccideva il padre. 
La libertà dello schiavo, consentita appunto dall’imperatore Adriano, era già prevista in precedenza quando, per cause di forza maggiore in casi molto particolari, furono accettati arruolamenti di schiavi e di barbari negli eserciti legionari. In questi casi lo schiavo otteneva subito la libertà e il diritto di sposare le vedove dei caduti di guerra. 
Da considerare, comunque, anche i casi in cui erano gli stessi padroni a liberare gli schiavi e anche questo, dopo un po’, fu ben regolato da delle leggi, l’ultima delle quali, la Fufia Canina, consentiva di affrancare al massimo un quinto degli schiavi posseduti. Questo per non innescare un sistema involutivo della società che, reggendosi appunto sulla schiavitù, non avrebbe potuto sfamare tante bocche nuove. 

Posto che la "bontà" verso gli schiavi doveva essere considerata un sentimento eccezionale, le pene o punizioni erano molte e all'ordine del giorno, da quella più semplice del trasferimento in una famiglia rustica a quella del lavoro forzato in miniera, alle cave, alla macine, al circo, sino alla crocifissione. 

Di regola bastava la fustigazione (sferza, scudiscio e il terribile flagello, frusta a nodi), ma a volte si procedeva alla rasatura della testa, fino alla tortura vera e propria: l'ustione mediante lamine di metallo incandescenti, la frattura violenta degli stinchi, la mutilazione, l'eculeo (strumento in legno che stirava il corpo sino a spezzarne le giunture). 
Agli schiavi fuggitivi, calunniatori o ladri si scrivevano in fronte, col marchio infuocato, rispettivamente le lettere FUG (fugitivus), KAL (kalumniator) o FUR (fur=ladro). Tuttavia chi riusciva a sottrarsi alla cattura cessava di essere schiavo, per una consuetudine passata nel diritto. 
Per gli schiavi ribelli, terroristi, sediziosi vi era invece la crocifissione previa flagellazione. Ma molti di questi schiavi finivano anche in pasto alle belve feroci del circo o bruciati vivi. 
Pur considerando che il livello di benessere di una persona era palesato dal numero di schiavi in suo possesso, è anche vero che con il continuo ricambio dettato anche dagli affrancamenti il numero di schiavi che passavano per i mercati di Roma è impressionante: si arriva a commercializzare qualcosa come centomila vite al giorno nell’intero territorio imperiale. 
Tuttavia, dopo le grandi razzie effettuate nel periodo di conquista ed espansione territoriale dell’impero, il numero complessivo degli schiavi in seguito diminuisce, anche perché si cerca di trasformare la schiavitù in colonialismo o in servaggio sulla base di un contratto a livello “nazionale” con i popoli di confine. 

Il riscatto dalla condizione servile portava lo schiavo alla condizione di uomo libero, ma senza diritti e comunque legato per la vita al suo padrone cui doveva garantire obbedienza e un certo livello di servizio dietro compenso in denaro o con vitto e alloggio. Questa condizione era quella del “liberto” e l’età adatta per riscattarsi si aggirava intorno ai trent’anni, che erano molti se consideriamo che mediamente la vita degli antichi romani non superava i sessant’anni. 
Il riscatto poteva avvenire sia per volontà del padrone, sia per capacità proprie dello schiavo di racimolare degli extra per pagare la tassa di riscatto. C’è da chiedersi, comunque, come mai si giunse a considerare la liberazione degli schiavi in una società dove la schiavitù era così radicata e regolata da leggi un po’ su tutti i piani (e, ovviamente, raramente in favore degli schiavi). 
La causa principale era la stessa società romana che era una società guerriera in cui per molti secoli si avvalse di guerre di conquista per assicurare nelle casse dello stato grossi introiti. In tale situazione, al fronte c’erano legionari, cioè uomini liberi e cittadini veri e propri. In tale situazione gli schiavi rimanevano nelle proprietà del padrone ed era loro dovere e compito lavorare in modo che tutto continuasse a funzionare e a garantire al padrone un futuro per quando fosse tornato a casa. Era quindi necessario che ci fossero delle persone di provata fedeltà e responsabilità che mandassero avanti le cose al posto del dominus e quindi non era infrequente che per legare maggiormente a sé tali schiavi, i padroni li liberassero dando loro la condizione di liberto. 
Inoltre, bisogna anche considerare che tali responsabilità – cioè sostituire il padrone nella gestione della casa e dei suoi affari – comportava spesso decisioni che non era dato prendere a uno schiavo e quindi la liberazione di uno di essi che fosse fidato si rendeva quasi necessaria. 
Altri casi, invece, erano quelli derivanti dagli schiavi cui era permesso di lavorare al di fuori delle proprietà del padrone, cedendo una certa (cospicua) percentuale dei ricavati allo stesso. Con i risparmi essi potevano pagare al padrone la propria libertà, generalmente al prezzo del loro stesso acquisto. Di solito, essendo il liberto comunque legato al padrone, spesso nulla cambiava se non la percentuale (molto meno cospicua) sui ricavati del lavoro di questi nuovi liberti regolando l’attività imprenditoriale per l’ex-padrone con un regolare contratto. 
Inoltre, c’era anche il caso dei senatori: essi erano persone sacre e protette dagli dei – difatti portavano la toga laticlavia (con la banda porpora) a indicare il loro status – e questo non permetteva loro di commerciare o intraprendere attività imprenditoriali vere e proprie. A tal fine i liberti erano dei prestanome efficaci che consentivano loro di fare di tutto, anche praticare l’usura e il commercio di schiavi (le attività considerate all’epoca più abbiette in assoluto) senza rischiare pene o che il loro buon nome venisse infangato. 
La condizione di liberto, come detto, non era parificabile a quella di cittadino, ma ottenne nel corso del tempo alcune modifiche grazie alla lungimiranza degli imperatori che garantirono ai liberti la cittadinanza se non per loro stessi almeno per i propri discendenti, a parte qualche caso in cui i liberti stessi, in virtù della loro ricchezza personale o della loro abnegazione allo stato, non venivano premiati con la cittadinanza vera e propria: Augusto arrivò ad autorizzare i matrimoni tra liberi e liberti; Tiberio diede la cittadinanza ai liberti pompieri antincendio a condizione che si arruolassero nell'esercito; Claudio la concesse ai liberti che coi loro risparmi avessero armato le navi commerciali; Nerone a quelli che avessero impiegato capitali nell'edilizia e Traiano a quelli che avessero aperto dei forni. 
Moltissimi cippi tombali rinvenuti lungo le principali vie consolari ci parlano delle carriere e delle vite più di liberti che di uomini liberi e di liberti ricchi e famosi ce ne furono molti. Alcuni nomi: Antonia Filematio, al servizio degli Antoni nel 13 a.C., capace di fare affari in Egitto; G. Cecilio Isidoro che nell'8 a.C. possedeva enormi latifondi e 4116 schiavi; Roscio, commediante, che ricevette da Silla l'alta onorificenza dell'anello d'oro; Narciso e Pallante furono arbitri di molte carriere militari e politiche. 

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