RACCONTO: The Fate of Eberron - 5
III – Notte Movimentata
Anat arrivò fino alla passarella, ma lì si fermò.
Giratasi per tornare dai compagni, non aveva trovato più nessuno e vagamente
ricordava la voce di Lorian che le diceva qualcosa, probabilmente dove
sarebbero andati. Conoscendolo, non avrebbe certo aspettato l’indomani per
esaminare quel forgiato. Aveva quindi deciso di scendere alla locanda di Pia,
nel Focolare di Bolderyn, là dove a Sharn era possibile trovare una locanda a
basso prezzo, ma – soprattutto – a bassa altezza.
Pia era una nana grassottella dallo sguardo furbo e
malizioso, ma sapeva tenere la bocca chiusa e aveva delle stanze pulite, per
avere un locale nel livello basso della città portuale. Il problema attuale di
Anat era arrivarci. Da sola.
Guardò la gondola sospesa nel vuoto, la breve
passerella di circa tre metri sospesa nel vuoto. E sudò freddo. «Lorian, giuro
che te la faccio pagare.»
Il gondoliere, un mezz’elfo che dimostrava di avere da
sì a no circa vent’anni, la guardava incuriosito. Alla fine, vedendola tentare
un passo in avanti e poi tornare indietro di due, si decise a parlare: «Signora,
tutto bene? Ora la Volta del Cielo è sicura e posso portarla dove vuole senza
problemi.»
Anat deglutì nervosa, senza darlo a vedere, fissando
senza realmente vederla la gondola. Niente di più di un guscio di noce nel
vuoto. No, impossibile. Devo farlo.
Cazzo. Sylvion, perché quando servi non ci sei mai?
Il pensiero di Anat fu fuggevole e rapido e replicò al
giovane mezzelfo con una specie di uggiolio ferito.
«Signora?» Il ragazzo, con la tipica divisa dei
gondolieri fatta da morbide babbucce di pelle, pantaloni neri ampi stretti in
vita da una fusciacca azzurra e una maglie a strisce bianche e blu tesa sul
torace squadrò la donna preoccupato. Non
era presa molto bene, si era coperta con un drappo strappato a un qualche palco
la veste stracciata. Poveretta, pensò
quello, quando la torre Cannith è esplosa
doveva essere vicina ed è stata travolta dalla folla. È ancora sotto shock,
guarda come fissa la gondola…
«Ho un problema, ragazzo, e ho bisogno che mi aiuti.»
Disse Anat con voce tremante.
«Certo, signora, ditemi. Dove devo portarvi?»
«A bordo di quel coso, per cominciare.»
«Ma…» Il mezzelfo si bloccò, confuso. «C’è qualche
problema?»
«Sì.»
«E se me lo concedete, signora, posso aiutarvi?»
«Sì.»
La risposta a monosillabi della donna non lo stava
aiutando, tutt’altro. Spazientito, riprese a parlare, pur restando attento a
non far trasparire la propria inquietudine: «Mi volete dire qual è il problema?»
«Sì.»
Ancora… «Ditemelo, allora!»
«Soffro di vertigini.»
«Veri… vergi… vert… cosa?!» Aveva impiegato alcuni
secondo a capire cosa avesse appena detto quella straniera. Incredibile, suo
padre aveva ragione: esistevano davvero persone che… «Avete paura
dell’altezza?!»
Anat da pallida aveva raggiunto sfumature di rosso in
viso che gareggiavano con le fiamme dei capelli. «Ebbene sì.»
«Incredibile… e come ci siete arrivata quassù?»
«Mi ci hanno trascinato a forza, a dir la verità. Ma
ora devo scendere al secondo livello.»
Il ragazzo depose il remo molto ampio sul finire che
usava come timone della gondola, l’assicurò con una cima e frugò dentro un
piccolo boccaporto a prua, per estrarne un cofanetto d’argento molto elaborato
e di pregevole fattura e avvicinarsi, quindi, alla donna. Donna che era
sussultata quando lo aveva visto saltare agevolmente il piccolo spazio vuoto
tra l’imbarcazione e la banchina dove l’aveva attraccata. «Ecco, ho la
soluzione per voi, mia signora.»
Lei chiuse strettamente gli occhi e replicò con una
vena leggerissima di panico e rassegnazione: «Ne conosco una sola: mira qui e
tira con tutte le tue forze. Non te ne farò una colpa…»
Si indicava il mento e girò appena un po’ il viso per
agevolarlo nel compito. Non si accorse quindi del sorriso di biasimo del
ragazzo.
«Non serve, mia signora. E poi non sono ferrato nella
boxe, magari finirei solo per farvi del male inutilmente. Ecco, prendete una di
queste.»
Con queste parole aprì sotto al naso di Anat il
cofanetto, che si rivelò essere pieno di caramelle all’unico occhio che lei
socchiuse per sbirciare. Catturata l’attenzione della morfica, lei ne prese una
e la guardò diffidente. Avrebbe preferito un cazzotto a una qualche pillola. E
quella che stringeva aveva tutta l’aria di essere solo un’innocua caramella. «Un
zuccherino?»
Il mezzelfo sorrise a nascondere il fastidio che tutta
quella diffidenza gli stava causando. Ma, essendo quella una zoticona del
secondo livello, non doveva aspettarsi poi molto. Ciò non toglieva che restava
una cliente e che come tale doveva trattarla con rispetto e riguardo, anche se
aveva la tentazione di lasciarla al suo destino. «Sì, mia signora, ma non sono
caramelle normali: queste sono Pillole della Leggiadria. Fanno passare la paura
di volare.»
«Mmm.»
Anat studiò la pillola che teneva con due dita, ancora
diffidente. «Mi stendono?»
«No, mia signora. Voi sarete ben cosciente, non vi
preoccupate. Solo non avrete più timore di salire a bordo della gondola e vi
potrò trasferire in tutta sicurezza verso la vostra destinazione.»
«Ah. Bene.» Anat non era convinta, ma visto che non
aveva molto tempo e doveva prepararsi per l’appuntamento con Jekis, decise di
fidarsi, specie dopo aver visto il ragazzo prenderne una e, con un sorriso
divertito e complice, cacciarsela in bocca dopo averla fatta volare in aria,
ignara del fatto che lui stesse gustandosi una vera caramella. «Visto? Non fa
nulla, a parte togliere la paura del vuoto.»
Quasi convinta, Anat presa la pillola, ma il mezzelfo
non la invitò a salire a bordo subito, rimase invece con lei a chiacchierare
del più e del meno, raccogliendo informazioni da usare durante i voli su quanto
accaduto nella piazza centrale del livello più alto di Sharn, la cosiddetta
Volta del cielo.
Solo quando la vide guardare con un sorriso inebetito
la gondola la fece salire e la traghettò giù in breve tempo.
Sylvion aprì gli occhi annebbiati sulla figura di un
halfling indaffarato su di lui, attorniato da altri tre, un uomo e due donne.
Indossavano una strana tenuta e i capelli erano tagliati cortissimi in tutti e
quattro quegli esemplari mettendo in evidenza le orecchie appuntite corredate
da una lunga fila di orecchini solo su un lato come era di moda in quegli
ultimi anni tra i picoletti del Khorvair, gli occhi a mandorla, tutti di un
nocciola dorato così tipico della loro razza erano attenti a quello che stavano
facendo.
Il tanfo di lek, l’estratto disinfettante, impregnava
l’aria.
«Dottore, il paziente si è svegliato.»
«Riaddormentalo, non ho finito.»
La bocca impastata, Sylvion tentò di muoversi,
decisamente poco d’accordo con quella decisione.
«Swhiliami.»
Il changeling mormorò qualcosa di inintelligibile
ripiombando in un sonno senza sogni.
«Ho un lavoro per te, Bigio.»
«Cosa me ne viene in tasca?»
«Tu cosa vuoi?»
«Un mondo pulito, sgorbio.»
L’elfo ridacchiò divertito, passandosi la punta della
lama dall’aria estremamente affilata sotto le unghie curate. «Solita tariffa?»
L’uomo annuì affermativo. «Chi devo trovarti?»
«Quattro amici.»
«Solita tariffa, per quattro ovviamente.»
«Ovvio.» Replicò serafico l’elfo, senza smettere di
giocherellare con la lama. Sapeva che, nonostante l’uomo in piedi davanti alla
sua scrivania non dimostrasse nulla, la cosa lo metteva a disagio. La cosa e il
lusso della stanza. In un angolo un trillo degno delle sirene ruppe il
silenzio: su un trespolo, legato con una catenella d’oro, stazionava un raro
uccello canterino che si poteva trovare solo nel cuore del selvaggio continente
di Xen’drik.
La penombra dorata creata dalle costose candele di
cera era profumata di miele e creava un contrasto strano con il resto
dell’ambiente: arredato con ricchi mobili laccati e pesanti velluti rosso
scuro, l’ufficio aveva un’aria demodé ricca e sontuosa. La calda luce dorata
strideva sulla cicatrice che attraversava il volto dell’elfo, partendo dalla
linea squadrata della mascella sotto all’orecchio privato del lobo e arrivando
al centro della fronte, tra gli occhi obliqui e a mandorla di un verde puro e
cristallino come quello degli smeraldi che gli adornavano le dita.
La camicia nera si apriva sul petto in una scollatura
studiata per alzare sulla nuca un colletto inamidato che gliela circondava come
una gorgiera di certi nobili dei tempi andati e lo stivale di morbida pelle di
yakin, una specie di animale ormai raro se non proprio estinto fasciava un
polpaccio muscolo posato con noncuranza sullo spigolo del tavolo intagliato con
maestria e intarsiato con argento. Tipico artigianato elfico: foglie di acanto
che si inerpicavano per le zampe della scrivania, giungendo a intrecciarsi con
tralci di fiori di nut e i relativi, e altrettanto velenosi, frutti.
«Quei quattro sono un intralcio. Scovali.»
«E poi?»
«Ci penseranno i miei ragazzi.»
«Non lo so se basteranno con loro. Sono ossi duri.»
L’elfo annuì freddamente, riponendo lo stiletto sul
piano del tavolo e intrecciando le dita sopra al
ventre, semidisteso sulla poltrona di pelle girevole, che si inclinò quando questi si appoggiò allo schienale. «Questo non ti deve preoccupare.»
ventre, semidisteso sulla poltrona di pelle girevole, che si inclinò quando questi si appoggiò allo schienale. «Questo non ti deve preoccupare.»
L’elfo sorrise sprezzante, concludendo. «Muovi il
culo, Bigio. Il tuo onorario è caro e quello che ho sempre apprezzato di te è
che non sprechi mai i soldi dei tuoi clienti.»
L’uomo fece un cenno affermativo, stirando le labbra
in una smorfia. Si mise il cappello a tesa larga in testa e i suoi lineamenti
si indurirono prima di sparire nascosti dietro una sciarpa di lino costosa, ma
dall’aria vissuta. Infilò il pastrano che aveva sicuramente visto tempi
migliori e, portando due dita alla tesa del cappello, fece un cenno di saluto
uscendo.
Dalle ombre create dalle candele se ne staccò una,
affiancandosi all’elfo, che fissava meditabondo la porta. Accanto a lui delle
mani affusolate gli porsero un fine calice colmo di vino speziato e fumante che
prese e sorbì dopo averne aspirato l’aroma a pieni polmoni.
«Li troverà, capo?»
L’elfo sorrise contro il bordo della coppa. «Ci puoi
mettere una mano sul fuoco. Metti in moto i ragazzi. Che lo seguano e agiscano
di conseguenza.»
Fender seguiva a passo lento il suo amico e artefice,
Lorian. A ogni due passi dell’uomo corrispondeva un passo del forgiato. Da
molti anni stavano assieme, i destini legati da più di qualche sporadica
occasione, si erano via via abituati a muoversi a passi misurati l’uno
sull’altro. Lorian allungava un poco il suo, Fender accorciava un poco il
proprio, così da poter camminare fianco a fianco, da pari. Fender apprezzava
molto questa finezza dell’artefice, non era cosa da tutti. Men che meno era
cosa dei Cannith. Ma Lorian aveva rinnegato la sua appartenenza ai Cannith, pur
continuando a sfruttare quel legame in maniera del tutto opportunistica.
Giunti al laboratorio al secondo livello, raccolsero
una serie di strumenti di analisi e di attrezzi che Lorian avrebbe usato per
studiare quel forgiato.
«Non dovremmo aspettare almeno l’alba? Il capitano
della guardia è stato chiaro in questo.»
«Bah, quello passerà la notte a bagordare in qualche
postribolo. Confido nella loquace parlantina del Comandante Gedin.»
«Prima o poi ti lascerà a cucinare nel tuo brodo. Non
dovresti fidarti di lui.»
«Fintanto che tengo la bocca chiusa sui suoi affari
nel livello degli ingranaggi, Gedin sarà un buon alleato.»
«Potrebbe decidere di farti fuori, Lorian.»
L’artefice, impegnato a scegliere gli attrezzi da
portarsi appresso scosse indifferente le spalle: «Non lo farà mai, anzi. Si
preoccuperà sempre che io stia bene, perché credi mi abbia dato questo NetCom
diretto con la sua linea privata?»
Fender rimase in silenzio, non conosceva i dettagli e,
per certi versi, non li voleva conoscere. «Va bene. Ma non capisco tutta questa
fretta.»
Lorian finì di comporre la sua borsa degli attrezzi,
la chiuse e avviandosi alla porta fece un gesto, che spense la luce nel momento
stesso in cui lui aprì l’anta. Gli occhi di Fender si accesero, illuminandogli
il passo e consentendogli di vedere il sorrisetto saputo dell’artefice: «Perché,
amico mio, non ho nessuna intenzione di lasciar insabbiare la cosa e permettere
alla guardia cittadina di fare il bello e il cattivo tempo sulle prove. Con il
nome che porto e la mia presenza là, scommetto quello che vuoi che avranno la
brillante idea di accusarmi di essere l’autore di tutto questo casino.»
La porta si chiuse alle loro spalle e un’ombra si
staccò dal fondo del vicolo, mettendosi a seguirli.
Sylvion si risvegliò in un lettino scomodo, avvolto
nelle bende come una mummia. Accanto a lui un halfling vestito con il tipico
camice dei Jorasko, i guaritori per antonomasia lì nel Khorvaire, stava
studiando una cartelletta.
«Ehi.» Lo chiamò.
Il dottore lo ignorò anche quando tossicchiò, sembrò
degnarlo di un’occhiata distratta quando il changeling decise di averne
abbastanza e cercò di alzarsi. Scoprendo di essere legato al letto. «Che
diamine…?»
«Si calmi. È una normale precauzione per evitare che i
pazienti cadano dal letto agitandosi per il dolore.»
«Dove accidenti sono?»
«Nell’hospite Denexian, al terzo livello di Sharn. Si
ricorda, sì, di essere a Sharn?»
Sylvion puntò i suoi inquietanti occhi bianchi
sull’halfling che, tuttavia, non sembrò scomporsi più di tanto. «Me lo ricordo,
sì! Come mi ricordo il ricamino che mi ha lasciato quella maledetta lattina.»
Splendido. Adesso cominciava a parlare come Anat.
Chissà che intrugli dovevano avergli dato.
Il medico si lasciò andare a un sorriso divertito a
quell’uscita. «Strano modo di appellare un forgiato. Comunque sia, adesso
cerchi di rilassarsi, signor…?»
Sylvion lo guardò con espressione immota.
L’altro rimase a guardarlo pacifico, in attesa.
Il silenzio venne rotto da un urlo distante.
«Shau-shi, vengo da Skairn. Nei Principati. Vorrei tornarci.»
L’halfling annuì benevolo, con quell’odiosa
espressione di paternalistica saccenza. «Ci tornerà, non si preoccupi. Per ora
si conceda una vacanza.»
L’espressione di Sylvion dovette essere
particolarmente strana, un incrocio di malevolenza e di stupito orrore che fece
prima scoppiar a ridere il medico, per poi smorzare la sua risata inutile.
Tossicchiò imbarazzato e mise via la cartelletta. «Immagino voglia andarsene il
prima possibile da qui.»
«Immagina bene.»
Sospirando esageratamente, il medico gli liberò i
polsi e lo aiutò a mettersi seduto. «E va bene. La ferita non era troppo
profonda, ma lo stesso veda di non esagerare con i movimenti bruschi: rischia
di strappare i punti. E anche quella cosa che fate normalmente voi… quel vostro
cambiare forma… lo eviti per un paio di giorni.»
Il changeling quasi non lo ascoltava, guardandosi
attentamente intorno.
«I suoi averi sono in quell’armadietto lì, numero 18.
Lo stesso del letto.»
Senza una parola si alzò dirigendosi all’armadietto,
mentre il dottore compilava una carta e riempiva una boccetta di pillole,
raccomandandogli dosi e tempi di somministrazione per una miglior e più veloce
cura nella totale indifferenza del changeling, che si stava chiedendo dove
ritrovare gli amici.
«Mi raccomando, eh! Che poi mi tocca ricucirla di
nuovo perché non mi ha ascoltato!»
La predica ebbe finalmente fine, senza nemmeno
rendersene conto, Sylvion aveva mosso la testa automaticamente in segno
affermativo o negativo in una reazione istintiva al tono della voce che faceva
da sottofondo ai suoi pensieri, fintanto che si rivestiva con gesti cauti.

Mentre percorreva il corridoio, cercò di rammentare le
parole del guaritore halfling in merito al mutare forma e ai dosaggi del
medicinale che gli aveva dato. Il secondo gli sovvenne prontamente, forse
perché l’aveva ripetuto non sapeva quante volte, mentre il primo no.
Se non lo aveva recepito, allora non doveva essere
importante. Si guardò attorno, curioso, fermandosi nel vano di una porta.
Sbirciò dentro e vide un uomo attempato, di robusta costituzione steso su un
letto dall’aria molto più comoda di quello dov’era lui e che gli aveva
indolenzito la schiena. Lo osservò attentamente non visto, quindi una volta
soddisfatto dell’analisi si mosse di nuovo, alzando il bavero del pastrano nero
che lo avvolgeva e mutando cautamente forma.
Improvvisamente ricordò cosa gli avesse detto
l’halfling in proposito. Ovviamente, troppo tardi.
Una mano corse al petto, l’altra alla spalla. Si
accasciò contro il muro con un rantolo di dolore, i punti tirati allo spasmo.
Accanto a lui, due uomini, parlavano del più e del meno, con l’aria di conoscersi
da tempo: «Ehi, hai sentito chi è arrivato in città?»
«No, chi?»
«Il Trovatutto!»
«Ma dai? E come lo sai?»
«La cugina di Ikkra, mia moglie, era alla stazione del
treno folgore per salutare suo marito. Quando è arrivato il treno, lo ha visto
scendere.»
«Cosa vorrà qui… Ehi!! Tutto bene, amico?!»
La futile chiacchiera s’interruppe allorquando uno dei
due vide Sylvion boccheggiare contro il muro. Si apprestarono ad aiutarlo e,
non sapendo bene per quale arcano motivo, il changeling decise di continuare a infliggersi
quella tortura. «Sto… bene… quasi…»
Lo sorressero e lo aiutarono a sedersi sulla panca
accanto a loro, vigilando sul colorito stranamente grigiastro del volto. «Sicuro?»
«S-sì… sono appena stato dimesso.» Prese di tasca dal
pastrano la boccetta delle pillole e con mano tremante ne fece cadere una rossa
e due blu sul palmo della mano, per poi lanciarsele in bocca. «Sono stato
ferito prima, alla Volta del Cielo.»
I due costernati, dimostrarono tutta la loro
comprensione e la loro rimostranza all’accaduto, una vera vergogna per Sharn,
ma soprattutto mostrarono biasimo per la guardia cittadina.
«Quei bastardi sono stati capaci solo di colpire noi
con i randelli, se non fosse stato per quei tre ora quel forgiato sarebbe
distante e il mandante la farebbe franca.»
Sylvion annuì con espressione solenne.
«Hai visto cosa è successo? Era un morfico quella
donna con il vestito azzurro e verde?»
Ancora, Sylvion annuì solenne, per poi aggiungere: «Ero
proprio là vicino al palco, accidenti, e quella ha cominciato a ringhiare. Gran
bella figliola, ma – lasciatemelo dire – gran brutto carattere.»
Risero i due, rise anche lui salvo poi smettere
tenendosi il petto martoriato con una mano, gemendo. Se Anat lo avesse sentito
sarebbe andata in escandescenze, mentre Fender avrebbe certamente trovato il
modo di rincarare la dose. «Come mai da queste parti? Non sembri uno di qui.»
«No, vengo dai Principati, io. Sono un mercante di
stoffe ed ero in città per lavoro da un paio di giorni. Ho saputo della festa e
della celebrazione e allora ho deciso di fermarmi un giorno in più. Il treno
folgore lo prenderò domani per tornare a casa.»
«Ohhh.»
Li guardò, prima uno e dopo l’altro. «Perdonatemi…»
Ansimò, preda di uno spasmo doloroso. «Posso… farvi… una domanda?»
«Sì, certo. Dica pure, buon uomo.»
Sylvion si trattenne quasi con facilità a
quell’appellativo, ben sapendo che lui era buono tanto quanto era umano. «Di
chi stavate parlando poco fa?»
«Eh?» I due lo guardarono stupiti quindi uno si aprì
in un sorriso arrivando a comprendere cosa stesse dicendo quello straniero dei
Principati. «Ah, di Marcus, Marcus il Trovatutto.»
Sylvion fischiò piano, di stupito apprezzamento. O,
meglio, ci provò, perché poco dopo un nuovo accesso di dolore gli annebbiò la
vista. Gli parve quasi di vedere la propria mano del suo colore naturale. Non
andava bene. Non andava affatto bene.
Né per la mano, né per la presenza del Trovatutto.
Quando c’era di mezzo lui, tutto andava storto.
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