RACCONTO - The Fate of Eberron 2
Sylvion sgusciava tra la folla agevolmente, Anat, dopo
i debiti ringraziamenti alla madre terra e a una sfilza di dei in cui non
credeva affatto, ma poteva tornare comodo tenerseli buoni, lo aveva raggiunto
facilmente. Dopotutto, l’essere una morfica aveva i suoi vantaggi: i suoi sensi
erano molto più acuti e il suo corpo era più agile e scattante, nonché più
forte, di quello di un essere umano o elfo.
Dalla notte dei tempi i figli di umani e licantropi
avevano dato origine a quelli della sua razza, che con il tempo si era evoluta
senza più bisogno del sangue lican, al punto che gli stessi morfici avevano
dato la caccia alle creature che li avevano originati unendosi agli Ispirati, i
fanatici religiosi della chiesa della Fiamma Argentea, fino a portare i
licantropi sull’orlo dell’estinzione. Quell’evoluzione naturale della specie
aveva portato i morfici a perdere molti tratti umani a favore di quelli selvatici,
cosa che invece non toccava lei. Lei era una morfica di primo sangue, come si
soleva dire, infatti sua madre era un’umana con sangue nanico nelle vene e il
padre che l’aveva generata era invece un licantropo in zanne e pelo.
Per evitare problemi era tornata alla sua completa
forma umana, ma la confusione la frastornava e il conflitto di odori le stava
causando un terribile mal di testa, inoltre l’idea di condividere di nuovo del
tempo con una lattina la mal disponeva all’aria di festa che la circondava.
Una nobildonna vestita assai succintamente la urtò e
lei, senza tanti complimenti, le diede uno spintone con il rischio di farla
ruzzolare giù dai suoi altissimi tacchi. La scollatura riuscì a contenere
per non si sa quale grazia divina il seno prosperoso, sicuramente
tenuto su da qualche magia perché, fino a prova contraria, per quanto Sharn
fosse una città aerea, la forza di gravità esisteva anche lì.
Anat ringhiò furente, risentita, in mezzo a quella
calca si sentiva come in gabbia e per tutta risposta la donna, sorretta da due
robuste braccia maschili alle spalle la guardò con palese disgusto che si
rifletté sui volti delle persone accanto a lei. Un senso di nausea la colse, ma
tenne ben salda la maschera di rabbia arrogante e proseguì per la sua strada.
Nuovamente alle calcagna del changelin, lo appellò bassa e feroce: «Ma non
potevamo trovarci alla taverna di Pia giù dabbasso? Dannazione, che caos.»
«Cazzo, sono cinque anni che non ci vediamo, ma a
essere sincero le tue continue lamentele non mi sono affatto mancate!»
«Non rompere e guarda un po’ se li vedi.»
«Non ancora. Perché diamine non ti godi la
passeggiata?»
«Perché non sono affatto dell’umore adatto.» Ed era
vero. In una qualsiasi altra occasione avrebbe volentieri esplorato il mercato
e le bancarelle, magari sarebbe riuscita a contrattare un buon prezzo per
qualche gingillo e una lama nuova o magari uno di quei cristalli magici per
comunicare a distanza, dal momento che il suo si era frantumato durante
l’ultima missione. Sbuffò. Odiava l’altezza, odiava la folla e odiava quella
cacofonia di odori che lanciavano al suo cervello lampi di colore a tinte
forti, irritandola.
«La prossima volta decido io dove ritrovarci!» Esclamò
la donna, sempre più nervosa.
«Va bene, va bene... ma ora piantala.»
Anat sollevò lo sguardo al cielo, desiderando
ardentemente di essere da qualunque altra parte, purché con i piedi ben saldi
in terra. Avrebbe tanto voluto, per una volta, godersi una giornata di
divertimento, ma i suoi sensi più sottili e più sensibili le stavano urlando di
stare all’erta e, dal momento che in quella città non era mai successo nulla,
la cosa la scombussolava. Fu allora che lo vide.
Alto, possente, luccicante al sole del primo
pomeriggio, brillava più intensamente dei suoi simili. Un forgiato. Una
lattina. Sorrise divertita, sentendo una nuova eccitazione coglierla. Vide
l’uomo accanto al forgiato, sul palco d’onore con gli stemmi della casata
Cannith girarsi per parlare con qualcuno e, alle spalle di Sylvion, si lasciò
andare a un gesto che nessuno avrebbe mai pensato potesse fare nei confronti di
quelli che tutti sapevano essere i suoi nemici giurati. Anat alzò il braccio e
salutò con un sorriso scanzonato Fender.
Giunti che furono al palco vennero fatti salire e
accomodare al tavolo riservato da Lorian appositamente. Dopo alcuni impacciati
convenevoli passarono il resto del pomeriggio ad assistere distrattamente agli
spettacoli via via sempre più malinconici, la cui solennità cresceva di pari
passo.
Inframezzavano gli spettacoli raccontandosi a vicenda
le proprie esperienze i quei cinque anni di lontananza; immancabili, Anat e Fender continuarono a
punzecchiarsi per tutto il tempo, senza mai perdere una sola occasione. Così
ogni tanto il forgiato doveva chinarsi a raccogliere un bullone che cadeva dopo
che lei l’aveva allentato e la donna si scopriva a grattarsi la testa e
lanciare via con due dita una pulce di troppo.
Sul far del tramonto le rappresentazioni sul
palcoscenico divennero solenni e lugubri, memorie di un tempo passato di distruzione
e il gruppo, sceso dal palco Cannith per passeggiare nel mercato, tornò al suo
posto privilegiato incuneandosi a fatica tra la folla che ora assiepava la
piazza sospesa nel vuoto. Quel pensiero aereo, ogni tanto, tornava a sfiorare
la mente di Anat causandole un brivido di puro orrore che reprimeva per pura
forza di volontà.
Mentre rientravano a passo lento, Sylvion lasciò
cadere con fare indifferente: «Allora, Lorian, che mi dici del tuo laboratorio?»
«Né più né meno di quello che già sai.»
«Ah... e cosa pensi dei nuovi forgiati?»
Lorian sentì un vago malessere coglierlo a quella
insinuazione. Creare nuovi forgiati era vietato dalla legge da più di dieci
anni, da quando era stato stipulato il Patto di Fortetrono tra le cinque
nazioni di Khorvaire. Le forge della creazione erano state spente e poi
smantellate in obbedienza a quella legge. Lui non aveva più costruito forgiati,
ma non aveva mai smesso di fare ricerche in proposito. «Che io non c’entro.»
La replica era arrivata con un attimo di ritardo e
Anat, distratta, infierì acida: «Certo... lui è rispettoso della legge.»
Fender, flemmatico, aggiunse: «A Sharn lo sono tutti.»
La donna ridacchiò: «è
fuori dei confini di Sharn che le leggi diventano degli optional.»
«Non per me!» Insistette l’artefice, punto sul vivo.
«Seee...»
Stizzito, l’artefice si diresse a passo veloce verso
il palco, grugnendo qualcosa di non ben comprensibile a proposito degli amici e
della loro presunta irreprensibilità. «Come mai tiri fuori il discorso,
Sylvion?»
Fender si intromise nel discorso: «Perchè Lorian
studia ancora le tecniche di forgiatura. Ma non le mette in pratica.»
Anat scosse la testa, sedendosi e lisciando le pieghe
della morbida veste di seta. «Già, lui no, ma altri sì. Ho distrutto due forge
e annientato un bel po’ di lattine, negli ultimi tempi.»
Fender si incupì. Sentirla parlare così, senza alcun
riguardo per i presenti lo infastidiva. «Erano creature vive, non avevi il
diritto di decidere per loro.»
La ragazza sorseggiò la birra schiumosa dal
boccale, guardando il forgiato con i suoi occhi neri come il peccato,
insondabili come l’ossidiana. «Erano abomini. Una cosa viva è diversa.»
«La cosa è opinabile, a mio parere. Pur non
essendo fatti di materiale organico, i forgiati sono esseri senzienti, anche il
Patto di Fortetrono lo stabilisce e ne garantisce il diritto alla vita.»
Vedendo che la situazione stava velocemente
degenerando il changeling pensò bene di riportare il discorso sulla tematica
principale: «Resta il fatto che negli ultimi anni sono state scoperte fucine
clandestine e nuovi forgiati hanno preso vita.»
«Non è possibile», si intromise Lorian, «solo gli
artefici Cannith conoscono il segreto della creazione e con il Patto di Fortetrono
è stato posto veto anche alla diffusione di queste informazioni.»
Sylvion assunse un’espressione ambigua, chiedendogli: «E
pensi che le informazioni siano rimaste sotto chiave nel tuo laboratorio?
Sai... il vento porta anche i più piccoli sussurri nelle zone più lontane.»
L’artefice, pur mantenendo una maschera di freddo
contegno, alla donna sembrò chiaramente in imbarazzo, quasi si sentisse
colpevole. Colpevole di cosa? Spostò
lo sguardo su Fender e scrollò le spalle. Non erano affari suoi, se Lorian il
Rinnegato voleva creare forgiati illegalmente, lei si sarebbe limitata a
farglieli fuori e a distruggergli l’officina.
«Tornando a noi... non è che si potrebbe mangiare
qualcosa? Sto morendo di fame!» Interloquì per alleggerire la tensione.
«In effetti io e Anat abbiamo saltato il pranzo... la
signora aveva un problema con...»
«Un’altra parola e ti regalo le mie zanne alla gola.»
Lo minacciò brutale lei.
Sylvion sghignazzò, alzando le mani in segno di resa,
gli altri due passarono lo sguardo dall’uno all’altra senza comprendere lo
scambio, ma ben sapendo che non avrebbero saputo nulla. Non in quel momento,
almeno.
Le luci vennero accese per contrastare l’imbrunire che
a quelle altezze scendeva con pigra lentezza a coprire il cielo con il manto
della notte, lungo filamenti magici le lanterne si muovevano in un ipnotico
saliscendi che illuminava a sprazzi le alte guglie dei palazzi che circondavano
la grande piazza.
Lorian si dilungò nel descrivere noiosamente e annoiato
a sua volta come si sarebbe svolta tutta la cerimonia commemorativa, indicando
i vari palchi delle undici casate che ogni anno contribuivano a quel momento
toccante con lo sfarzo degno del proprio nome nella realizzazione della torre
di cristallo che sarebbe stata gettata nel fiume di sotto, molto al di sotto.
Così tanto al di sotto che nemmeno lo si vedeva.
«Partecipi anche tu?» Sylvion era curioso, nessuno
degnò di uno sguardo Anat, persa ad ammirare le lanterne volanti e a emettere
strani gorgoglii di apprezzamento.
«No, come esponente portatore del marchio devo essere
presente, ma non ho realizzato io la torre. Però devo fare la mia parte e
quindi...» Lorian esalò un sospiro melodrammatico prima di finire: «Quindi
Fender porterà la torre sul palco, presenzierà al posto mio.»
Sul palco un nano salì e prese la parola
destabilizzando Anat quando la sua voce le arrivò da cinque punti diversi.
Guardatasi intorno individuò facilmente le varie fonti e quando tornò a
guardare il palcoscenico notò i coni metallici puntati come enormi imbuti verso
il nano, vestito secondo gli ultimi dettami della moda, e che
finivano nel terreno. Un sistema di amplificazione. Scosse la testa cercando di
schiarirsela e nuovamente sentì nell’aria una minaccia incombente.
Sei una cretina, si
disse. Il nano, le spiegarono, era il sindaco di Sharn e decantò la
bellezza eterea e senza tempo della sua città, l’amore e la dedizione dei suoi
concittadini, iniziando poi un discorso lugubre che tolse via via
l’appetito ad Anat e quando con il suo discorso introdusse la memoria dei duri
tempi di guerra, il Lupo delle Lande ringhiò di gola, digrignò i denti fissando
senza vederlo il calice di cristallo davanti al piatto, lo sguardo perso in un
altro tempo. In un’altra vita. Il generale che era stata si offese al sentir
parlare della guerra che aveva annientato la sua terra come di una tragedia che
aveva colpito al cuore la città, lì dove la guerra vera non era mai davvero
arrivata.
Non ascoltava i compagni, fremendo a ogni parola fuori
luogo, per lei e quelli come lei, del sindaco. Più il nano parlava, più il suo
morale finiva sotto i tacchi.
«... lasciandoci la terribile eredità delle Lande
Gementi.»
A quelle ultime parole Anat scattò in piedi
rovesciando la sedia e si precipitò fuori dal palco respirando affannosamente
come in cerca d’aria. I compagni la guardarono preoccupati: tutti loro sapevano
che Anat era una degli ultimi sopravvissuti di Cyre e non doveva essere
facile per lei sentire discorsi così vacui da parte di gente che la guerra non
sapeva nemmeno cosa fosse. Questo Fender lo capiva meglio di chiunque altro.
Lui la guerra l’aveva vissuta sul proprio metallo. Il forgiato fu l’unico a
muoversi, ma nessuno lo fermò.
La raggiunse dietro il palco del casato, era
appoggiata a un muro, le mani dietro la schiena e un’espressione da cimitero in
faccia.
«Non farci caso.» Le disse e la voce cavernosa penetrò
la coscienza della morfica, evidentemente alterata.
«Già, certo.» Replicò amara. «Merda! Non sa quello che
sta dicendo quel bellimbusto!»
Il ringhio inferocito e l’esplosione d’ira della donna
la portarono a mutare in parte forma, assottigliando gli arti e incurvando la
schiena, mentre il viso si era allungato ferino con le zanne esposte
minacciosamente verso di lui.
«Dai, torniamo dentro e beviti del buon sidro. È
inutile che ti incazzi tanto e poi tra poco comincia la sfilata delle torri.»
Anat sbuffò risentita avvicinandosi cauta e guardando
il forgiato con diffidenza, mentre lentamente tornava la bella ragazza che
tutti avevano visto fino a quel momento seduta tra forgiato e artefice. Il
forgiato ebbe un guizzo negli occhi di legno verniciato, quel guizzo che lo
faceva sembrare più vivo del solito e che le aveva impedito – insieme al
metallo stellare che aveva addosso – di farlo fuori. «Ma sì, andiamo, che ti
offro una coppa di buon olio lubrificante. Tanto ormai la fame mi è passata.»
Fender emise un suono simile a una risatina e aprì uno
sportello, estraendone una ciotola per cani e porgendogliela dicendo: «Guarda,
ti ho portato la tua ciotola! Ci ho inciso anche il tuo nome!»
Anat lo guardò in tralice.
Poi sorrise, prendendo la ciotola.
E rise di gusto rientrando sul palco dopo avergliela
messa per cappello. La scena era stata assai ridicola: il forgiato che cercava
in tutte le maniere di togliersi di dosso una donna vestita di seta abbarbicata
con braccia e gambe sulla sua schiena mentre gli calava in testa quella ciotola
con tutte le sue forze, incastrandola.
«… e ora le torri, signori, offerte in dono alla città
dalle casate delle cinque nazioni. Kundarak…»
Iniziò la sfilata delle torri commemorative offerte
dalle cinque casate, a partire da quella più importante, ossia proprio i
Kundarak. Anat li guardò pensosa, fissando attentamente le persone sul palco
accanto a quello dove stava lei, ma senza riconoscerne una, erano tutti nani
mentre lei discendeva da un ramo del casato con sangue misto, più umano che
nanico, stanziato a Cyre. Aveva sentito dire che i Kundarak di Cyre erano stati
catturati sul confine e trucidati tutti durante la guerra, quando ancora era
una ragazzina e combatteva tra le fila dei soldati di giorno e contro i soldati
stessi la notte, quei pochi idioti che avevano tentato di violentarla.
I cinque servitori riuscirono a issare a fatica la
statua avvolta in un manto sul vassoio in argento per poi spostarlo verso il
bordo estremo del palcoscenico. Il suo creatore salì chiamato dal sindaco nano
e teatralmente volse le spalle alla folla per poi alzare le braccia e, dopo un
respiro che parve eterno, spingere nel baratro la propria creazione,
accompagnata da un “ohh” generale della folla assiepata nella piazza. I quattro
compagni dovettero ammettere che la posizione esterna, ma rialzata, dei palchi
delle casate garantiva una perfetta visuale dello spettacolo al di sopra delle
teste delle persone.
Via via sfilarono servitori e torri di cristallo delle
undici casate, fino a quando Fender non si alzò e da solo portò la torre della
casata Cannith al luogo in cui sarebbe stata scoperta, ultimo sacrificio
simbolico della Caduta dei Cristalli.
Il mastro scultore che aveva creato la torre salì sul
palcoscenico ignorando tutto e tutti e si pose accanto alla sua creatura,
Fender fece scivolare via il telo che la copriva, esibendo agli occhi del
popolo la magnificenza del cristallo che rifrangeva la luce artificiale da ogni
minima asperità che denotava un ingranaggio o uno strumento di lavoro.
«Vedete, ogni casata ha preso l’iniziativa, a
differenza di quando questa cerimonia è stata istituita, di creare le torri da
far cadere nel vuoto secondo la loro concezione. Come vedete, la nostra torre
sembra un ammasso informe di ruote dentate e congegni, ma…»
Anat smise si ascoltarlo, gli occhi puntati sulla
torre. Un bagliore diverso dagli altri aveva fatto risuonare tutti i campanelli
d’allarme del suo istinto animale insieme, in un concerto di brividi e
aspettativa, mentre lo scultore che l’aveva creata si posizionava con le spalle
alla folla per l’ultima spinta. Le mani sul cristallo erano ferme in un ultimo
addio.
Anat si alzò lentamente in piedi, tenendo puntato lo
sguardo sulla torre, mentre lo scultore che l’aveva creata si poneva con le
spalle al pubblico con fare lento ed estenuante.
Accanto alla torre Fender fu il primo a notarlo.
Poi si ampliò e si ingigantì riempiendo la piazza,
dipingendo la gente lì assiepata, muri, case e palazzi di un colore rosso
sangue.

Anat spalancò gli occhi, sentendo nell’aria l’elettricità
statica arruffarle i capelli sulla nuca.
Fender vide la prima crepa, ascoltò il suo correre
deciso per tutta l’altezza della torre e si mosse di conseguenza, cercando di
frapporsi fra essa e lo scultore.
Il brusio acceso della folla aveva attirato la confusa
attenzione di Sylvion e Lorian, che si protesero dalle sedie per guardare
meglio, cercando di capire cosa stesse succedendo.
Poi una mano decisa li agguantò alla nuca,
nell’intento di spingerli e trascinarli a terra, mentre Anat piombava tra loro
urlando: «Giù!»
Non la sentirono.
Nell’aria solo il frastuono del boato seguito dal
tintinnio di schegge impazzite che volavano in ogni direzione, trafiggendo,
tagliando, accecando; tintinnii cristallini che declamavano un canto di morte.
E poi…
Poi un silenzio surreale scese su Sharn.
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