RACCONTO: Diario di un assassino - Interludio
Scendeva dal dolce declivio che il sole era al tramonto e vedeva in
lontananza la figura bianca procedere sulla piana deserta che gli tzigani
chiamavano campus stellae.
Tutto sommato, non essendoci mai stato, era anche lui curioso di
comprendere l’origine di quel nome, di una zona così vicina a finis terrae.
Si tenne sempre a distanza di sicurezza e attese che il buio scendesse
a coprire l’agguato che stava per compiere. Comodamente seduto su uno dei rami
più alti dell’ultimo albero prima della piana libera, masticò svogliato un
pezzo di carne secca, inaffiandolo di tanto in tanto con delle generose sorsate
di acqua dal suo otre. Aveva con sé anche della birra, ma non beveva mai prima
di un’imboscata.
Sorrise beffardo alla sua preda, sicuro nel suo nascondiglio,
osservando l’uomo vestito di bianco seduto a gambe incrociate davanti a un
piccolo fuoco. Non faceva nemmeno un bagliore in più del necessario per
cucinare quel coniglio che lo aveva visto prendere ore prima, ma in uno spazio
aperto come quello brillava come un faro in mezzo al mare.
Attese di veder tramontare la luna, assorbendo la pace di quel
silenzio, rotto solo dai rumori notturni: animali che si muovevano nel
sottobosco alle sue spalle, frullar d’ali di uccelli che si rimettevano a
dormire dopo esser stati svegliati dal passaggio forse di un topo, il battito
regolare dei rapaci notturni in volo alla ricerca dei piccoli roditori che
uscivano al calar del buio.
In tutto quel silenzio si mosse con calma e lenta sicurezza, non un
fruscio di troppo o troppo forte si diradò da lui mentre prendeva i tre pezzi
di legno e li montava con i perni in ferro, andando a comporre il suo arco
portatile. Quanti ne aveva rotti nel corso degli anni mentre studiava il modo
di rendere un arco più facilmente trasportabile! La cosa complicata fu mettere
su la corda stando in equilibrio precario su un ramo grosso abbastanza da
reggere il suo peso, ma anche abbastanza flessibile da curvarsi a una sua mossa
troppo brusca. Ma ci riuscì: non aveva fretta e la sua preda non aveva dato
segno di essersi accorto di lui.
Aprì la faretra, prese due frecce, ne incoccò una e prese la mira.
Inspirò a fondo un paio di volte ricordando un'altra caccia, molto
simile. Solo che quella volta era stato lui la preda. Alla terza trattenne il
respiro, cancellando il ricordo di come era arrivato a Cemenelum e di come lo
avessero a suo tempo catturato.
Infine scoccò.
Tamer Aziru Khenzer sentì lo schiocco sordo e distante della corda e il
sibilo della freccia.
Finalmente quel cacciatore aveva fatto la sua mossa. Abile era stato
abile, non si capacitava di come fosse riuscito a ritrovarlo, era certo di averlo
seminato ben più di un mese addietro e molto, ma molto distante da lì. La cosa
non lo preoccupò più di tanto: aveva altro a cui pensare.
Tamer Aziru Khenzer sentì lo schiocco sordo e distante della corda e il
sibilo della freccia. Il movimento fu fulmineo: la terra che aveva raccolto in
grembo di nascosto durante la cena venne lanciata dalla tunica al fuoco,
soffocandolo, e lui si gettò oltre il piccolo falò mentre la freccia alzava uno
sbuffo nella cenere, Tamer fece una capriola a terra, finendo lungo disteso e
rotolando immediatamente sul fianco per spostarsi dalla traiettoria di un’eventuale
seconda freccia che, puntuale come il male, arrivò a conficcarsi a terra
esattamente dove un istante prima stava la sua testa.
Maledetto.
Mise mano alla sacchetta che teneva in vita, mentre se ne stava
disteso a terra e si difese come sapeva fare. Il potere arcano che gli scorreva
nelle vene e che aveva imparato a padroneggiare nelle situazioni più disparate
gli incendiò il sangue, ubriacandolo e nere scie di ombra scivolarono sul
terreno coperto dal manto della notte, puntando all’ombra che stava correndogli
incontro, ora in campo aperto. Era il momento di risolvere la questione una volta
per tutte.
Accortosi dell’agilità dell’egiziano, l’uomo sull’albero scoccò la
seconda freccia al buio. Il ragazzo lo aveva sorpreso soffocando il fuoco con
il suo balzo e togliendogli la visibilità. Anche se era vestito di bianco, con
il buio e l’assenza della luna non riusciva a vederlo.
Scese quindi dall’albero con estrema rapidità e si lanciò in una veloce
corsa alla volta della sua preda. Non voleva rischiare di perderlo un’altra
volta. Si accorse delle ombre appena in tempo e solo grazie alla sua
esperienza. Sorrise soddisfatto: il ragazzo aveva intenzione di vendere cara la
pelle e la cosa gli piaceva. Gli piaceva molto.
Mosse la mano nell’aria davanti a sé, senza frenare la corsa,
spargendo composti magici che risvegliarono la sua potenza arcana inebriandolo
come sempre nel corso di tutti quegli anni, come fosse la prima volta.
I due si scontrarono a metà strada.
Attacchi magici dall’una e dall’altra parte furono lanciati, elusi,
bloccati e contrastati con pari abilità. Fu inevitabile lo scontro fisico.
Correndo il cacciatore aveva incoccato e lanciato un’altra freccia, più per creare
confusione nell’avversario che con reale intento: non si può lanciare con
precisione una freccia mentre si corre! Di contro l’altro, l’egiziano, la sua
preda, gli aveva tirato addosso delle lame che aveva schivato con disinvoltura
anche se erano state lanciate con dei congegni che ne aumentavano la potenza e
la gittata. Il cacciatore conosceva molti dei trucchi degli assassini di Seth e
riuscì a schivare tutte e quattro le lame, anche se le ultime due gli
lasciarono il segno su un braccio e su una gamba.
I pugni affondarono contemporaneamente nel giacco di pelle imbottito
che ricopriva il torso, togliendo il respiro ciascuno al proprio avversario.
Finalmente Tamer poté vedere in faccia, anche se ancora velata dal
buio, il suo persecutore.
Nessuno dei due parlò: entrambi erano concentrati nella lotta. Quando
l’uno tirava, l’altro parava, quando uno arrivava a segno, l’altro incassava
per contrattaccare con altrettanta furiosa ferocia. Combattevano per
sopravvivere. A un certo punto il cacciatore incespicò all’indietro e Tamer gli
fu addosso estraendo un lungo pugnale da dietro la schiena e puntandoglielo
alla gola che teneva serrata con la mano destra mentre finiva a cavalcioni sul
cacciatore, sovrastandolo e bloccandolo a terra definitivamente.
«Ora, se non vuoi che finisca quello che ho iniziato prima di quanto
stabilito dal Fato, mi dirai chi sei e che cosa vuoi da me. Sono due mesi che mi
insegui, dannazione! Come accidenti hai fatto a ritrovarmi sempre?»
La risposta non l’ebbe subito. Troppo tardi si era accorto del sasso
che l’altro stringeva in mano, recuperato chissà quando in chissà quale delle
innumerevoli cadute che vicendevolmente avevano fatto, costretti o meno dalle
circostanze.
Tamer si risvegliò non tanto tempo dopo, accanto a un piccolo e
allegro fuocherello che illuminava l’uomo seduto dall’altro lato delle fiamme.
Si alzò a sedere di scatto, scoprendosi le mani legate dietro la schiena. «Cosa…?»
L’altro ridacchiò, sollevando la testa bionda, il viso nascosto da due
folti baffi spioventi che incorniciavano la bocca sorridente mentre si portava
una marmitta alle labbra. «Ben svegliato, Khenzer.»
«Dannazione!»
L’uomo doveva avere sui quaranta-quarantacinque anni, aveva un corpo
atletico e piuttosto forte – lo stomaco e il volto ancora dolevano per i suoi pugni
– e vestiva di grigio, nero e verde scuro. Dal fianco spuntava l’elsa di un
gladio e dall’altro lato era ben visibile un pugio. Il mantello che gli
avvolgeva le spalle era composto da lunghe strisce di stoffa larghe quattro
palmi affiancati di verde e grigio cucite assieme in diagonale. Accanto a sé aveva
un arco più corto del solito e una faretra. Lo stava studiando.
L’egiziano non mostrò altro che furia repressa, eppure l’uomo era
certo che la testa dovesse dolergli come non mai, visto e considerato che non
si era dato pena di frenare la forza della sassata. Santi Numi, se l’era vista
brutta, effettivamente. Omaggiò la preda finalmente catturata di un prosaico e –
involontariamente – beffardo brindisi e bevve un lungo sorso di tisana.
«Particolare il nome di questo posto, non trovi anche tu, Khenzer?
Dopotutto, da studioso come me, anche tu non hai saputo resistere al richiamo
della curiosità di questo campus stellae.»
Parlò pacato e Tamer ebbe modo di interpretare una lieve cadenza gallica nella
parlata dell’uomo.
L’egiziano non rispose, continuando a guardare impassibile il suo
avversario. Aveva esitato e ora ne stava pagando le conseguenze come gli aveva
insegnato la sua Maestra. Non l’avrebbe delusa lasciandosi piegare dagli eventi
per implorare salva la vita. Aveva esitato, aveva commesso un errore fatale.
Avrebbe pagato.
«Non dici nulla?» Lo interrogò il gallico.
«Non ho nulla da dire.» Finalmente rispose.
«Non sei di gran compagnia quanto a conversazione.»
«Mi perdonerai se non mi sento molto in vena di convenevoli.»
«Suvvia, non ti ho legato così stretto, se davvero volessi riusciresti a sorprendermi ancora.»
«Considerando che mi hai disarmato completamente…» E l’egiziano
ammiccò con la testa in direzione del mucchio di armi che l’altro aveva alla
sua sinistra «…anche se mi liberassi avrei ben poche possibilità di riuscita a
fare alcunché prima che tu mi stenda di nuovo con una sassata.»
L’altro rise di gusto, carezzando il sasso ancora sporco del sangue
dell’egiziano. «Beh… hai una testa abbastanza dura da reggere il colpo.»
Suo malgrado Tamer sorrise, anche se fu appena un accenno, un lieve
stirare delle labbra. Lo sguardo vacuo, privo di ogni emozione metteva in
soggezione chiunque e anche il gallico, sentendosi quegli occhi vuoti addosso
provò un moto di disagio che faticò a nascondere.
«Eppure la tua magistra parla bene di te. Dice che sei uno dei suoi
elementi più brillanti e il fatto che tu sia riuscito a sfuggire a me e a ben
tre squadre di cacciatori della Specula ne è la prova.»
«Non direi, visto che sono qui.»
«Oh, pura fortuna. Mi sono solo chiesto cosa avrei fatto al tuo posto.
Visto che gli altri erano convinti di seguire la pista per l’Illirya li ho
lasciati andare.» Il gallico si strinse nelle spalle. «Sete?»
Tamer aveva la bocca e la gola che sembravano piene della sabbia rossa
del deserto in cui era cresciuto, ma non rispose e non fece alcun cenno. L’altro
sorrise, stringendosi un’altra volta nelle spalle e continuando a bere
imperterrito la sua tisana fumante.

«Troppa luce.»
«Che dici, Khenzer?»
«Non si riescono a vedere bene perché c’è troppa luce. Le domus e gli
edifici pubblici pullulano di torce e nelle zone più povere le case e le insule
sono così alte e così addossate da non consentire una buona visuale del cielo.»
A dispetto del senso di disagio e di aspettativa, l’egiziano alzò gli
occhi al cielo e sospirò. «Ma qui… qui è possibile vedere il disegno degli dei
in tutto il suo splendore.»
«Hai ragione. Tutto sommato, non è stata davvero una perdita di tempo
venire qui, vero?»
«Se qualcosa può regalarti un’emozione o insegnarti qualcosa non è mai
una perdita di tempo.»
«Saggio, oltre che abile.»
«Non abbastanza abile e ben poco saggio. Avrei dovuto ucciderti e non
darti modo di mettermi fuori combattimento.»
«Dettagli che si acquisiscono con l’esperienza… e nemmeno sempre. In
realtà è stato saggio da parte tua non ammazzarmi e volere invece delle
spiegazioni. Non è stato saggio volerle in quel frangente: avresti dovuto colpirmi
e togliermi i sensi e adesso sarei io legato a darti delle spiegazioni.»
Tamer crollò la testa, considerando quanto fossero vere e tardive
quelle osservazioni. Degne della sua Maestra…
«Sai perché ti ho dato la caccia, Khenzer?»
«Dimmelo tu.» In realtà lui lo sapeva benissimo, ma non lo avrebbe mai
ammesso. Avrebbe significato confessare il suo ruolo di spia e tutto quanto ne
conseguiva.
«Perché ti voglio nel mio cursus. Perché sei dannatamente in gamba e
non ti arrendi. Perché hai la testa dura più di questo sasso.»
No, Tamer non lo sapeva affatto perché quell’uomo gli avesse dato la
caccia così tenacemente. Non era quella la spiegazione che si era aspettato, si
era aspettato ben altro.
«Ma tu… chi sei?» Chiese infine, guardando l’uomo davanti a sé, dall’altro
lato del piccolo fuoco ormai morente.
«Io? Sono Gawain Gallicano, Magister Umbrarum. E tu, Tamer Aziru Khenzer,
sei il mio primo allievo.»
«Che mi piaccia o no?»
L’altro nicchiò con la testa. «Più o meno. Ma presumo che ti piacerà
passare i prossimi sei mesi al Magisterium Mercurialis ad affinare le tue doti
per diventare una spia perfetta.»
Sei gladi coronavano l’aquila imperiale sul simbolo della Specula che
ornava di nero la sua fusciacca rossa, uno per magisterium. Il sesto
magisterium, il sesto segreto. E lui ne avrebbe fatto parte.
Tamer quasi scoppiò a ridere per l’ironia della sorte: aveva tentato
la fuga da ciò che invece aveva sempre anelato di scoprire!
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