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OPINIONI: Editoria, EAP e Self-publishing


Diciamoci la verità: con il proliferare del self-publishing e della cattiva abitudine dell’EAP siamo sommersi da una mareggiata di cose letteralmente illeggibili o, come direbbe un informatico, di [cosa fetida marrone] da dover usare una cannuccia per respirare.
Eppure tra gli autori emergenti o comunque sconosciuti che si pubblicano in self-publishing qualche perla rara non solo leggibile o godibile, ma proprio un bel libro, c’è. Il problema, però, è trovarla.
L’Italia è un paese bislacco dove tutti scrivono e nessuno legge. Dove la politica è all’ordine del giorno in un teatrino di grande tristezza e la moltitudine soggiace alle nuove insulse regole di pochi per pigrizia o per chissà quale altro motivo, mentre per partecipare ai provini di X Factor o per acquistare l’iPhone 5 si è capaci di fare ore e ore di coda se non di dormire all’addiaccio pur di non perdere il posto.
Ma chi scrive e lo si trova ben distribuito in tutte le librerie e negli scaffali degli ipermercati e dei centri commerciali generalmente è gente già famosa di suo o già riconosciuta come scrittore o scrittrice, portata agli onori della cronaca magari da pubblicità martellanti.
Una concezione del mercato editoriale piatta che appiattisce i sensi e che appiattisce la fantasia. In tutto questo, chi ha talento e chi vuole emergere si trova a dover affrontare un sottobosco infido di malaffare e malcostume tutto all’italiana. Il senso comune di pubblicare è andato perso, mercificato e sfruttato da persone incuranti del risultato e mistificato da chi, sentendosi importante per questo e reso tale da amici increduli, si definisce scrittore magari piazzando sotto al naso una copia stampata del suo ultimo libro.
Mi spiace tirare una pietra in faccia (virtualmente parlando, s’intende!) a questi illusi, ma le cose non stanno affatto così.
Anche noi vogliamo fare gli scrittori (e non i scritori), ma per farlo cerchiamo di tenere i piedi ben piantati per terra e cerchiamo, anche, di non farci abbindolare da chi marcia su questa poesia ormai divenuta un requiem editoriale. Chi vuole fare lo scrittore deve, alla fin fine, entrare nel mondo dell’editoria e, inutile girarci attorno, se non si vuole essere mangiati dagli squali bisogna conoscere almeno un po’ questo mondo.
Non posso che parlare per l’esperienza personale, tra l’altro ammetto molto fortunata, che abbiamo fatto noi demiurghi, ma anche quella molto meno fortunata di altri amici scrittori.
Partiamo da un dato di fatto: l’editoria è una forma imprenditoriale tale per cui una persona (editore) si carica dei rischi di impresa e paga dei fornitori (tipografi, grafici, scrittori, ecc.) per distribuire e vendere un prodotto (libro) secondo le leggi di mercato a proprio rischio e pericolo e con – ovviamente – congrui rientri atti a consentirgli, una volta rientrato delle spese verso i fornitori, di potersi sostentare.
Perde di ogni romanticismo detta così, ma questa è la semplice realtà dei fatti.
Fatti inoppugnabili che, come è inoppugnabile che tutto il sistema imprenditoriale italiano (su tutti i tipi di produzione) risenta della crisi economica che sta investendo l’intero pianeta, spingono i soliti furbetti a inventarsi l’EAP, sterile acronimo tutto italiano che indica l’Editoria A Pagamento. Americani e inglesi, da questo punto di vista, sono quanto meno più sinceri con sé stessi e la chiamano per quello che è: “Vanity Press”.
Vanity Press, l’editoria della vanità perché non si cura di essere vera editoria, ma solo di stuzzicare l’ego e la vanità delle persone per sfruttarle fino all’ultimo, da tutti i punti di vista. Perché dunque ostinarci a sintetizzarla in un vuoto acronimo e non chiamarla per nome? Detta francamente, l’editoria a pagamento altro non è che una truffa. Una truffa legalizzata, ma comunque una truffa.
L’editoria a pagamento è quel sistema che, ahimè, ormai coinvolge circa il 70% delle case editrici italiane che sono tante, ma tante davvero. Tolti i grossi calibri che sono per la maggior parte degli scrittori inarrivabili se non per una dosa extra massiccia di fortuna o per conoscenze particolari, l’editoria italiana è un fiorire continuo di piccole e medie case editrici che chiedono un contributo all’autore. Piccole che poi, a ben guardare, certe tanto piccole non sono.
Ma dobbiamo davvero togliere i grossi calibri? Forse no. Forse anche loro, se ben retribuiti, fanno editoria a pagamento e allora se si scava e si ricerca, ecco saltare fuori un Gruppo Mondadori che, zitto zitto, detiene delle azioni di Albatros-Il Filo. La facciata è pulita e tanto basta, quindi? Forse sì, forse no. Ai posteri l’ardua sentenza.
Fosse solo il problema di pagare per farsi pubblicare, avrei anche qualche remora a far tante storie, ma è il modo in cui questo viene gestito che mi infastidisce, e molto. È l’assoluta noncuranza di chi sta dall’altra parte del bancone, di chi legge e spende altri soldi. C’è chi lo fa per svago, il comprarsi un libro dico, chi lo fa con le idee chiare, chi insegue una sensazione. Quello che accomuna tutti i lettori è che “investono in cultura”, anche se investono in forma privata. Ma gli editori a pagamento incarnano alla perfezione lo stile tutto italiano di fare imprenditoria: privatizzare le entrate e socializzare le uscite. La cosa, a farsi, è più semplice di quel che sembra ed è pure legale: vincolano l’autore a un contratto capestro, talvolta esplicito secondo cui quest’ultimo deve versare una determinata cifra, talvolta più elegante e subdolo con l’accordo tra le parti di un acquisto di un lotto minimo (da cento a cinquecento copie) del libro prodotto.
Libro che poi, misteriosamente, non viene distribuito se non espressamente ordinato e, nella maggior parte dei casi, ordinato direttamente tramite l’autore che, nella famigerata ipotesi abbia venduto tutte le copie acquistate, ne dovrà acquistare almeno un altro lotto. Per un libro.
Fosse solo questo. La punta di un iceberg che investe tutto il sistema editoriale, dai più grandi ai più piccoli.
Va fatto un distinguo, a tal proposito, anche su come se ne vanno i soldi del prezzo di copertina che si paga in libreria.
Prendiamo ad esempio un libro da 600 pagine che paghiamo 25,00€. Il primo 30% se lo intasca il libraio, un altro 30% se lo intasca il distributore. Certo, mica vorrete che le case editrici si prendano carico di cercare, aggiornare e contattare tutte le librerie d’Italia o far loro scegliere da catalogo. No, dai, scegliere da internet sarebbe troppo facile e poi i distributori fanno cartello e ti tagliano le gambe, perché si sa, l’Italia è il paese dei cartelli (e tutti ti mandano in una sola direzione). Poi ci dev’essere anche il compenso per l’editore, che ovviamente prima detrae le spese di produzione (materiali, lavorazioni, revisori, editing, ecc.) quindi di ciò che rimane tiene per se il resto lasciando, quando va molto bene un 5 o un 8% all’autore come diritti. Quindi di quei 25€ che tu lettore paghi, magari per una schifezza colossale, all’autore che stai maledicendo ne arrivano massimo massimo 2 di euro.
Il povero allocco, perché non mi sento di definire in altra maniera l’autore che paga per essere pubblicato da una casa editrice, prima di rifarsi dalla spesa sostenuta ne ha di che penare. Se mai ci riuscirà, visto e considerato che – a guardare un po’ intorno su internet – di allocchi il bel paese ne è stracolmo e quindi, che senso ha dividere gli introiti con librai e distributori? Il lettore viene così investito da una vera e propria ondata di nuove uscite, per lo più solo a catalogo, basta considerare che ogni anno in Italia vengono pubblicati 120.000 nuovi libri, tra saggi, romanzi e altro. CENTOVENTIMILA nuove uscite tra le quali solo una minima parte curate a dovere. Sì, perché come dicevo, la truffa dell’editoria a pagamento punta a massimizzare i profitti e socializzare le uscite, ma se si riesce a togliere la maggior parte delle uscite i soci in affari (costretti da contratti capestro) saranno contenti e comunque truffati perché pagheranno la loro quota in toto, e con il risparmio ottenuto dal non pagare un grafico, un impaginatore o un editor che curi la buona forma della scrittura italiana (e sono figure costose, per farvi un’idea vi consiglio di vedere questo sito) l’editore si intasca una maggior percentuale, aumentata di quel 60% di libraio e distributore che, perché spendere con internet che arriva ovunque?, non vengono nemmeno presi in considerazione e contattati. E, a questo punto, il lettore non serve più, visto e considerato che poi ci si arrangia anche a farsi le recensioni con gli account fake, sia degli editori che degli autori, solo che a differenza di questo caso che in Inghilterra ha fatto “scandalo”, in Italia sembra essere diventata la regola d’oro visto che si arriva a questi casi assurdi: hai vinto il concorso letterario? Paga.
E allora che succede? Alla maniera tutta italiana l’autore magari nemmeno preso in considerazione dai grossi nomi, rifiutati dai medio piccoli più seri e che “intelligentemente” rifiuta lui quelli meno seri dell’editoria a pagamento finisce per auto pubblicarsi perché, alla fine si sa, se tanto devo pagare tanto vale che paghi il meno possibile. Il problema è che con il self-publishing le cose non funzionano esattamente così: dovendosi sostituire all’editore la preoccupazione principale dovrebbe essere quella di far uscire un buon prodotto, di qualità e ben strutturato ed elaborato, cosa questa che costa e che quindi non viene fatta, lasciando che nel mercato entri di tutto e di più.
Con l’avvento di internet e del self-publishing siti web come lulu.com, ilmiolibro.it, youcanprint.it, amazon.it e tanti, tantissimi altri hanno iniziato a proliferare. E cosa succede? Che gli autori diventano editori di sé stessi (ma non è sempre vero) e si impegnano a fare il lavoro di mille altre persone.
Prima di tutto bisogna fare un distinguo: cosa è davvero il self-publishing e cosa si pensa che sia.
Il self-publishing viene osannato come nuova frontiera dell’editoria che non ricade nel concetto di editoria a pagamento, da troppi ormai portata agli onori di una cronaca che a questo genere di editori non piace molto, preferendo rimanere nella penombra dei dietro le quinte. Ma la verità è che il self-publishing carica l’autore di tutte quelle spese che dovrebbero ricadere sulle spalle del rischio d’impresa, ossia dell’editore, e quindi un buon prodotto in self-publishing necessita per forza di cose di essere sviluppato, corretto e sviluppato da più figure professionali. Che devono essere pagate.
Tutti a osannare quindi il self-publishing senza considerare che se si vuole pubblicare in maniera del tutto autonoma (cosa che noi demiurghi abbiamo fatto in due occasioni ben distinte) costa e costa parecchio. Perché se vuoi una briciola di possibilità di vedere dei rientri devi pagare dei professionisti che ti aiutino a curare la tua opera, a valorizzarla e a venderla bene. Internet non è più, da molto tempo, il libero mercato del fai da te e chi fa da sé tende a morire lentamente in una lenta agonia. Devi farti, per quanto poco, un business plan e devi diventare tutte quelle figure che di solito sono a carico della casa editrice. Devi diventare anche amministratore e commercialista e chi ha la passione di scrivere poi tende a non poterlo più fare o, quanto meno, a non poterlo più fare bene.
Il self-publishing, a dirla tutta, non sarebbe poi così male come idea di principio. Il problema, come sempre, è la gestione tutta Italian Style che riusciamo a dargli che finisce per rendere anche un’idea innovativa e promettente una truffa. Quindi, alla fin fine, il self publishing è una scelta editoriale valida e innovativa, ma anche molto molto pericolosa e, a conti fatti, (ecco a voi cultori un’altra pietra virtuale in faccia) un’altra forma di editoria a pagamento. Ma in tutto questo finiamo per dimenticarci di chi c’è dall’altra parte della barricata, chi davvero sostenta – o lo faceva fino a qualche anno fa – il mercato editoriale e che viene quindi truffato dal malcostume italiano di voler essere a tutti i costi uno scrittore (ma a basso costo): il lettore.
Il lettore è una persona che sceglie di leggere qualcosa e se quel qualcosa lo entusiasma torna in libreria a prendere altri libri di quell’autore o di quella casa editrice, magari eventuali seguiti se si tratta di serie o di saghe. Il lettore compra libri, il lettore quindi è colui che determina l’andamento di mercato del settore editoriale. Ma non in Italia.
Allo stato attuale delle cose, dopo lo sfruttamento arido e sterile di sogni altrui l’editoria a pagamento sfrutta anche il lettore che, mentre prima usciva da una libreria con tre libri e forse mezzo non lo convinceva, ora esce – dopo una prima bruciante scottatura – con un solo libro e il tremendo sospetto di aver buttato via anche questi soldi. Mentre prima il lettore “investiva in cultura”, ora rischia sempre di più di regalare i propri soldi alla filiera editoriale. E con chi se la prende? Con l’autore, ovviamente, perché è suo il nome stampato bello in grande appena sopra o appena sotto il titolo. E se l’autore è pure un auto pubblicato a maggior ragione.
Bene, dopo tante spalate di quella [cosa fetida marrone] di inizio articolo, per distinguerci dalla massa dei lamentevoli e mostrarci propositivi a nostra volta eccoci a tirare le somme: il lavoro sarà lungo, duro e necessiterà di vagonate di pazienza e di valium, ma alla lunga la cosa ripagherà – spero – la fatica spesa da ciascuno di noi.
Soprattutto mi appello agli scrittori o aspiranti tali: toglietevi i paraocchi del “si fa così”, se un editore vi vuole pubblicare lo deve fare a sue spese, senza alcun rimborso nemmeno simbolico da parte vostra. Se vi chiedono soldi dite a voce alta e sicura: “Grazie, ma no.” E imboccate la porta. Forse non sarete mai pubblicati e il motivo è da capire. Non accettate un semplice “non rientra nelle nostre linee editoriali”, chiedete che vi venga ben spiegato perché non piace: serve a voi per crescere come scrittori e se vi viene detto in faccia cosa c’è che non va, silenziate il volume del vostro ego e prendete quell’informazione come utile spunto per migliorare.
Se invece siete autori e volete autopubblicarvi e farlo sul serio perché volete essere indipendenti e non vincolati a qualsivoglia casa editrice, non abbiate fretta. Rileggete e fate leggere la vostra opera da persone di vostra fiducia che magari hanno una buona dimestichezza con l’italiano che vi possano aiutare a sistemare i periodi, trovare i refusi, migliorare la struttura del testo, rendere certi passaggi più intriganti.
Ma, soprattutto, ripescate la vostra umiltà.
Siate umili, specie nei confronti di chi legge ed esprime un suo parere, e umilmente accettate le critiche come le lodi. Critiche che devono essere ben mirate e devono essere accettate per quello che sono, non è giustificabile e professionale che una recensione massacri e dissacri l’opera con sarcasmo e pesante ironia ridicolizzando l’opera, a meno che non ci si rivolga a gente come zweilawyer, noto per il suo blog politically incorrect ma che, sotto sotto, mette davvero in attenta disanima ciò che legge.
Non chiedete a noi demiurghi una recensione se non siete pronti ad accettare anche un’eventuale critica. Accettate, anzi pretendete, la sincerità, sempre.
Uscite dal giro degli account fake, è difficili tenerli in piedi in modo credibile, è troppo facile scoprirli e vi portano solo a fare brutta figura con i lettori più attenti.
Alle case editrici, ma soprattutto alle associazioni di categoria, chiederei di smetterla di truffare la gente con uscite di scarsissima qualità senza alcun controllo grafico e letterale, ma conoscendo per esperienza personale (lo ero anche io, imprenditrice intendo) come girano le cose, evitiamo di sprecare bit per niente.
Perché alla fine, quello che accomuna lettori e scrittori, è l'amore per i libri.
E un buon in bocca al lupo a tutti gli scrittori italiani. Io arriverò poi… magari il lupo ha fatto indigestione!

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