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Uryen - L'esploratore (parte II)

1250 – Pannonia, lungo il limes
Erano passati due anni da allora. Una vita. Durante i dodici mesi successivi, Uryen diventò il paterfamilias, venne addestrato all’uso delle armi e si assunse tutte le responsabilità del maschio primogenito. In poche parole, diventò un uomo. L’anno successivo sua sorella Riannon si era sposata con un senatore della gens Vitae e subito dopo lui era partito per il cursus exploratorius della Chorus Auxiliaria Arcana. Lo aveva terminato da quasi tre mesi.
Entrarci gli era costato moltissimo. Non si capacitava ancora di far parte di un corpo d’elite. E nemmeno il suo circatur, all’inizio. Gli aveva fatto pagare cara la sua raccomandazione. Lo aveva preso di mira fin da subito. Zia Azia e zio Domiziano dovevano avere conoscenze molto in alto per avergli procurato l’accesso diretto. Peccato che Caius odiasse i raccomandati.
Tuttavia, Caius non era riuscito a metterlo sotto come avrebbe voluto, pur essendo un istruttore veterano. Uryen era fortemente motivato e non avrebbe permesso a nessuno di mettersi tra lui e la sua meta, per nessuna ragione. E alla fine, era stato lo stesso Caius a mandarlo in Gallia Narbonense, da Druso Ampliato, vista la sua preparazione superiore. Suo padre l’aveva istruito bene. Era stato allora che aveva conosciuto altri ragazzi della sua età, provenienti dalle più diverse regioni dell’Impero. Era stato con Druso Ampliato che aveva riscoperto le tradizioni raetiche del clan di suo padre. Gli erano piaciute, dalla moda di tenere i capelli lunghi alla barba. I tatuaggi rituali. I colori di guerra.
Uryen si era riavvicinato alle radici celtiche che gli erano state negate. Certo, molte cose ancora non le conosceva, altre probabilmente non le avrebbe mai conosciute. Ma quel poco che sapeva gli piaceva. Lo sentiva parte del suo sangue.
Acquattato con i compagni nella foresta, preparò l’arco pensando che sarebbe stata dura per suo padre accettare quella sua scelta. Marzio non parlava mai del passato, aveva rifiutato le sue origini ed aveva cresciuto lui e le sorelle come romani. Affilando la lama del pugio con la piccola cote che aveva nello zaino, tornò ancora una volta al passato. Tanto, dovevano solo attendere il tramonto. Ancora un’ora.
Quando quel giorno di due anni prima gli zii gli avevano detto che di Marzio non si sapeva più nulla e che non sarebbe rientrato, il mondo gli era crollato addosso. Ma invece di fare il bambino, aveva abbracciato sua madre, si era assunto le sue responsabilità e aveva promesso a se stesso che l’avrebbe ritrovato. Sua madre si era opposta, aveva pianto, rifiutava quella soluzione, non voleva perdere anche lui. Per giorni aveva inutilmente cercato di convincerla, supportato anche da Domiziano e da Azia. Per giorni la bella e dolce Galatea si era opposta tra le lacrime. Le sue ultime proteste avevano tacitato tutti, lui per primo. “Non potete farmi questo!!!” aveva urlato “Non dopo quanto è successo!!! L’esercito si è appena preso il mio sposo e adesso voi venite a dirmi che devo dargli anche il mio figlio primogenito?! Ma non avete cuore voi soldati? Azia, non puoi chiedermi questo, non puoi!!” aveva concluso sfinita, aggrappandosi alla costernata sapiente.
Era stata male, la povera Galatea. Per due settimane era rimasta a letto, priva di forze, sola contro il mondo. Uryen non aveva dubbi sul da farsi, ma non glielo disse mai. Si prese semplicemente cura di lei, accudendola, facendole compagnia ed imparando a gestire suo malgrado le attività di un dominus, mentre Riannon aveva preso il posto della madre fino a quando questa non si fu ristabilita.
Lentamente la donna si era ripresa, la vita aveva ripreso il suo normale corso, l’offerta di matrimonio per Riannon le aveva dato nuovi spunti per non pensare al marito assente, almeno durante il giorno.
Uryen era diventato il paterfamilias a pieno titolo, e determinò lui la dote generosa per sua sorella, convinto come tutti della buona fede di Ottaviano Vito Catullo, senatore di Roma, figlio di un senatore.
Una mattina, Galatea si era svegliata e lo aveva fatto chiamare, dopo una notte agitata. Il suo tono era spento, rassegnato. I suoi occhi rossi e scavati. I suoi capelli sciupati.“Uryen, figlio mio. Ho riflettuto a lungo ed a lungo ho pregato gli dèi.”
“Madre, sono sicuro che gli dèi accoglieranno ogni nostra preghiera.”
Dopo una breve pausa, la donna riprese: “Questa notte mi hanno risposto. Ho sognato un falco con le zampe legate ad un ramo. Era nel fitto della foresta, e gli era impossibile prendere il volo. Poi un’aquila è arrivata dal cielo, lo ha liberato e insieme sono volati via verso est.”
Le lacrime le scendevano dagli occhi immobili, lo sguardo triste rivolto verso di lui. Quello che fino a pochi giorni prima era per lei solo un ragazzo, si piegò ad accarezzarle il volto, passandole la mano tra i capelli. Aveva la stessa dolcezza con cui suo padre l’aveva accudita quasi vent’anni prima. Ed era ormai un uomo, pensò la donna con un sospiro.
Galatea gli aveva fatto una carezza, fermandosi sulla sua guancia. “Figlio mio, sei la mia unica speranza. Tuo padre è vivo, Uryen, ma non può farcela da solo. Trovalo e riportalo a casa. Fai ciò che è necessario. Tu sei l’unico in grado di farlo. Per quanto il mio fragile cuore rischi di andare in pezzi, sono solo una donna. Non posso oppormi al volere degli dèi.”
Si erano abbracciati a lungo, piangendo in silenzio l’uno sul volto dell’altra, consci che quello sarebbe stato l’ultimo momento di tenerezza tra madre e figlio. Poi lei aveva allentato la stretta. “Vai ora, un lungo viaggio ti attende.”
Con lo sguardo carico di gratitudine e di lacrime, era uscito dalla stanza. Domina Galatea gli aveva dato la sua benedizione.

“Forza muoviamoci.” La voce ferma e leggermente roca del comandante lo riscosse dai suoi pensieri. Era un Custos, ora, ed era in missione. La sua prima missione, ed era la più importante della sua vita.
I compagni della coorte si mossero come un sol uomo, dividendosi a coppie per rastrellare il villaggio. Uryen era ancora stupito dalla dinamicità di quella coorte. La coorte di suo padre, la VI Arcana. La coorte degli zii Azia e Domiziano. In quei due mesi di viaggio dalla Gallia Narbonense alla Pannonia aveva avuto modo di conoscere davvero gli amici di suo padre, ed era rimasto colpito dal cameratismo vigente, nonostante fosse da poco dopo la rivolta dei Riformisti che non era più in servizio attivo: Domiziano era diventato un senatore, Azia era diventata il Magister Sapientialis, Meretrix e Tolomeo erano diventati Aii. Lux Nera non aveva ben capito cosa facesse ora. Mancava solo Gawain, il più vecchio e grande amico del padre. Pareve stesse tenendo un cursus a delle nuove reclute, ma non era dato sapere dove. Al cenno del comandante, aveva imparato a sue spese come in missione non ci fosse spazio per amicizia e parentele con Azia, le corse al fianco per compiere il suo dovere.

Marzio si chiese cosa avesse scatenato tutto quel caos che penetrava fioco le grosse pareti di legno e roccia della casupola dove lo avevano rinchiuso. Camminava avanti ed indietro nervoso, i suoi sensi acuti erano in allerta, qualcuno doveva aver attaccato il villaggio. Sentiva l’odore di fumo e temeva di fare la fine del topo in trappola se fosse andato a fuoco tutto. Solo da alcuni giorni lo avevano slegato, ma la porta era stata chiusa da assi inchiodate per impedirgli la fuga. Cibi, bevande e tutto quanto gli potesse essere necessario gli veniva passato attraverso la grata della piccola finestrella posta sopra la sua testa.
Sentì chiaramente rumori di colluttazione all’esterno della sua prigione, quindi qualcuno parlò a voce bassa e concitata mentre un’altra persona toglieva le assi che bloccavano la via d’accesso. Marzio cominciò a sgranchirsi, pronto all’attacco, non sapendo cosa aspettarsi. La porta si spalancò di colpo ed una figura slanciata e muscolosa si fece avanti, petto nudo, arco pronto e freccia incoccata, un pugio tra i denti, un altro fissato in vita. Il celta si guardò attorno guardingo, puntando la freccia minacciosamente in tutte le direzioni, senza mai perdere di vista il retico al centro della stanza. Marzio stava per scattare quando si bloccò. Vi era qualcosa in quel celta che lo aveva scosso, ma non seppe dire subito cosa fu.
Poi l’uomo, dalla corta barba curatissima e con i capelli lunghi fino alle spalle, acconciati con treccine ai lati del viso secondo la tradizione celtica lo fissò negli occhi, serio, attento. Lo soppesò da cima a fondo, arco sempre pronto a scoccare il micidiale dardo.
Marzio decise di desistere: in primo luogo erano troppo vicini e non sarebbe mai riuscito ad evitare la freccia, e poi era stanco, sfibrato dalla prigionia prolungata e denutrito. Non era decisamente in forze per uno scontro così diretto, sebbene avrebbe venduto cara la pelle se fosse stato necessario.
Il celta era ricoperto dei colori rituali retici, ma i retici erano biondi, non scuri come i belgici. Sul petto, sulla spalla sinistra appena sopra al cuore, spiccava il tatuaggio di un’aquila in volo e riconobbe in quello il tatuaggio rituale del suo stesso antico retaggio, del suo clan. Ma non era Gawain, era troppo giovane. Guardò negli occhi il giovane uomo davanti a lui, che lentamente stava abbassando l’arma, togliendosi il pugio dalla bocca e cominciando a sorridere apertamente. Marzio rimase di stucco, riconoscendo finalmente gli occhi, così simili ai suoi, quel sorriso. L’avrebbe riconosciuto ovunque, quel sorriso. Era lo stesso sorriso di sua moglie. “Uryen?”
“Ave, pater.”
Scritto da: Martio Raeticus - Atia M. Rubinia
Revisionato da: Elios Tigrane

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