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La Domus

Questo termine, assieme anche ad alcune altre parole latine come alae, perystilium, atrium, fauces, tablinum, li abbiamo incontrati nei racconti di presentazione di Aife e di Aleksandros.

Nei nostri racconti facciamo riferimento alla domus classica del periodo imperiale, su Wikipedia si trovano un sacco di piantine e di schemi delle più note: dalla domus Flavia alla famosissima domus Aurea di Nerone, ecc...
La domus che noi andiamo a descrivere solitamente nei racconti è la classica casa di città dei ricchi e nobili patrizi, la casta dominante della società romana. Tale casa, però, deriva dall’evoluzione, diffusasi nel corso dei secoli in tutto il territorio imperiale, della più antica domus italica, la capostipite della tipologia di abitazione nobiliare.
Anche la domus, nella sua evoluzione storica, parte dalla più modesta casa italica dell’epoca antecedente la fondazione di Roma; questa tipologia di costruzione è tipica degli antichi Quiriti (abitanti pre-romani del colle del Quirinale) ed era la stessa per tutti, indipendentemente dalla loro classe sociale. Era costituita da un’unica grande stanza, l’atrium, circondata da poche altre stanze e con un piccolo giardino sul retro.
Solo in seguito, sviluppando la casa quirita su modelli greci, si è arrivati alla domus italica vera e propria. Lo sviluppo architettonico è orizzontale in quanto non si alza mai dal livello del terreno, e l’aggiunta di nuovi ambienti sempre più grandi e comodi l’hanno portata ad assumere l’aspetto della tipica casa signorile, la cosiddetta domus romana. La nostra domus, insomma.

La domus era la casa di città delle famiglie patrizie, anche se nel periodo tardo-imperiale anche molti mercanti e “borghesi” riuscirono a permettersi queste case sontuose. Veniva occupata da un’unica famiglia ed era costituita da una serie di stanze affacciate attorno ad un giardino centrale, o più di uno a seconda della grandezza, ognuna con un uso preciso.
Figura 1 - piantina di una domus, su gentile concessione 
di Danila Comastri Montanari
Esisteva un paradosso nella domus, ed era il contrasto stridente tra interno ed esterno: tanto ricco ed addobbato l’interno, curato nei minimi particolari per dare il massimo comfort alla famiglia che l’abitava, tanto povero e misero era l’esterno: sui muri che davano sulla strada non si aprivano finestre o balconi, ma l’unica apertura verso l’esterno era l’ostium, la prima porta di ingresso. Questo rendeva i locali tendenzialmente più bui, certamente, ma tutta l’illuminazione di cui i romani necessitavano durante il giorno veniva dalle aperture di accesso delle varie stanze che si affacciavano tutte sul giardino interno.

Entriamo ora a visitare una tipica domus, diciamo una molto grande, come quella del popolarissimo senatore Publio Aurelio Stazio, personaggio protagonista di molti romanzi nato dalla fantasia di Danila Comastri Montanari: dalla strada entriamo nell’ostium, l’ingresso principale. Su di un lato si trovava la cella ostiarii, la stanza del portinaio, in alcuni casi vi sono anche delle tabernae, ossia delle piccole botteghe comunicanti con la casa e che si aprivano sulla strada.
Solitamente le tabernae venivano affittate, ma non era infrequente che alcuni schiavi della domus le usassero, su concessione del padrone di casa, per delle loro attività commerciali private. Non era infrequente, infatti, che gli schiavi capaci di svolgere qualche attività fossero proprietari di negozi o laboratori, e che finissero per diventare, in alcuni casi, anche più ricchi dei loro stessi padroni.
Oltrepassato l’ostium si accedeva ad un corridoio, il vestibulum, alla cui metà era posta la vera e propria porta di casa, la ianua. Nelle case più ricche era molto vasto ed ornato con statue e colonne, e qui il nobile signore accoglieva i propri clientes per la salutatio matutina, rituale tipico dei romani che, dal liberto al patrizio, sentono un obbligo di rispetto verso chi è più potente di loro. In cambio di questo gesto, i clientes ricevevano protezione del loro signore, un compenso in denaro oppure un invito a pranzo o, ancora, una borsa con delle vivande, la sportula.
Proseguendo nella visita della nostra domus, ci troviamo quindi ad oltrepassare la ianua, la porta di casa vera e propria, formata da soglia, stipiti ed un architrave in marmo, da qui si accede ad un altro corridoio, le fauces, che conduce alla stanza principale della casa, l’atrium. Come detto in precedenza, l’atrium era la stanza principale e spesso unica delle grandi case più antiche, nella quale si svolgeva la vita quotidiana: vi si accendeva il focolare, vi si pranzava, vi si dormiva.

Figura 2 - L'atrium con l'impluvium della Casa del Menandro 
(Pompei)
Reminescenze di questo uso antico rimangono anche nella domus romana dell’epoca imperiale, difatti l’atrium risultava essere, spesso, la stanza più grande e sontuosa e la cosa aveva un duplice scopo: impressionare gli ospiti e mostrare a chi vi accedeva la grandezza del padrone di casa. Vi erano infatti ricchi arredi, i muri erano affrescati, vi trovava collocazione l’arca (la cassaforte del tempo) dove venivano custoditi gli oggetti più preziosi, i gioielli di famiglia ed i documenti più importanti; trovavano posto nell’atrium le imagines, raffigurazioni in cera degli antenati di cui i romani avevano un culto molto sentito; i Lares, custoditi nell’apposito lararium, erano invece raffigurazioni degli dèi protettori della casa davanti ai quali ogni giorno il padrone di casa pregava per il bene della sua famiglia. Nelle famiglie nobili di più alta estrazione non era strano vedere anche un ritratto marmoreo dello stesso paterfamilias.
A ricordare l’antico focolare rimane un piccolo tavolino in marmo, il cartibulum, addossato ora ad una parete.

La forma quadrata dell’atrium svolgeva anche una seconda funzione, non meno importante per la vita quotidiana: al centro il tetto era aperto ed inclinato verso l'interno e si apriva su una vasca atta a raccogliere l’acqua piovana, l’impluvium, che veniva poi convogliata verso una cisterna sotterranea dopo essere stata opportunamente filtrata attraverso vari strati di sabbia grossa e fine.
Oltre all’ingresso principale, riservato ai padroni di casa, ai clientes ed agli ospiti, ve n’era un secondo, usato solitamente dai servi, che si affacciava in un vicolo laterale, chiamato posticum, il quale che consentiva l’accesso direttamente al peristylium, il giardino interno circondato da un porticato, attorno al quale si sviluppavano tutti gli altri ambienti della ricca casa roma, quello che può essere considerato, insomma, il cuore vero e proprio della domus.
Affacciato direttamente sull’atrium della domus romana, proprio di fronte l’ingresso si apriva una grande stanza, il tablinum, con gli angoli delle pareti foggiate a pilastri ed un’ampia finestra che dava, come detto, proprio sul peristylium per ricevere luce e aria. Tipicamente era la stanza-studio del padrone, dove vi venivano conservati gli archivi di famiglia, ciò non toglie che nelle domus più grandi (come quella in piantina, per esempio) i tablinii fossero più d’uno, e venivano utilizzati alla stregua di salottini privati dove i membri della famiglia si ritiravano per conversare, giocare o altre attività prettamente domestiche, specie nel caso delle donne.
Ai lati dell’atrium si sviluppavano le alae della casa con numerosi ambienti più piccoli atti per lo più a stanze da letto, i cubicola. Erano ambienti piccoli e poco illuminati, ma essendo destinati solo per dormire la cosa, evidentemente, non aveva alcuna importanza. A guardare la piantina si rimane di stucco a vedere quanti cubicola poteva contenere una domus romana di un ricco senatore, ad esempio (tutte le stanze indicate con la lettera “C”), ma al giorno d’oggi si fatica a ricordare che le famiglie all’epoca erano molto numerose, oltre agli sposi, solitamente abitavano anche i genitori dell’uno o dell’altro, nonché i figli, molti figli. In domus di questa dimensione i cubicula più defilati, posizionati tra le cucine e le stanze padronali, erano occupati dai servi e dagli schiavi così da poter agilmente servire in fretta il domine, il padrone. Questa zona della casa era detta cella servorum.

Figura 3 - Peristylium di Villa dei Misteri (Pompei)
Passando nell’andron, un ampio corridoio che si apre accanto al tablinum, arriviamo finalmente al peristylium, la parte più interna e spettacolare della casa: un giardino. Era curato quotidianamente dai giardinieri e vi crescevano con ordine ed armonia erbe, fiori e cespugli. Era articolato con sentieri, aiuole e, talvolta, anche dei piccoli labirinti; vi si potevano trovare panche e tavolini in marmo, fontane e statue, non era raro trovarci anche una piscina in cui guizzavano alcuni pesci.
Questa piccola oasi era circondata dal portico colonnato, alto anche due piani; tra le colonne, in estate soprattutto, venivano legati dei teli a riparare in parte l’arsura del sole e la luce troppo diretta. Le pareti del porticato che circonda il peristylium erano riccamente affrescate, vi si trovavano appoggiati contro le pareti mobili che spesso mettevano in bella mostra servizi in argento, piuttosto che in finissimo vetro soffiato. Alle pareti si trovavano anche dei dipinti, di cui i romani specialmente quelli ricchi, erano grandi amanti e collezionisti. Purtroppo il tempo è tiranno con le materie deteriorabili e di questi dipinti a noi non ne sono giunte che semplici descrizioni nei classici latini.
L’abitudine di mettere in bella mostra i servizi preziosi nel portico del peristylium era una mossa tipica dei padroni di casa per mostrare la loro ricchezza in modo non ostentato, ma silenzioso: passando per un portico di una domus chiunque si faceva un’idea di quanto ricco fosse il signore a cui recava visita.
Sul peristilio si aprivano due importanti stanze, molto grandi e lussuose: l’exhedra e l’oecus, le due stanze ove si tenevano ricevimenti e cene di gala nella prima, banchetti sontuosi con ospiti di riguardo la seconda.
Sul peristylium si affacciavano anche i cubicola padronali, erano quelli più ampi e spaziosi di tutta la casa ed avevano una decorazione ben precisa: il pavimento era in mosaico bianco con semplici disegni geometrici ad ornarlo, le pitture alle pareti erano diverse per stile e colore da quello del resto della casa ed il soffitto della stanza era sempre a volta.
Sì, perché finora non lo abbiamo mai detto, ma i muri di casa, in tutta la domus, non erano bianchi come invece si usa al giorno d’oggi: fino ad una certa altezza (di circa un metro e mezzo) avevano un colore uniforme, poi nella parte alta potevano essere decorati con affreschi più o meno complessi e, nella maggioranza dei casi, ospitavano quadri.

Figura 4 - ricostruzione di trliclinium (Museo di Saragozza)
Come si evince dalla piantina, vi sono uno o più più triclinii nella domus e questo perché in epoca imperiale i Romani sono entrati in contatto con i più raffinati Greci e da loro adottarono l’uso di destinare una sala esclusivamente al pranzo, il triclinum appunto, mentre nei tempi più antichi il pranzo veniva solitamente consumato o nell’atrium o nel tablinum.
Il triclinium era una stanza sontuosa quanto le precedenti, come tutte si affacciava sul peristylium ed era fornita di letti triclinari, detti tori o triclinia, su cui trovavano posto fino a tre persone su ciascun lettino (ed ecco spiegato il nome della sala).
La disposizione dei triclinia non è casuale, in questa stanza venivano ospitati per il pranzo anche i clientes ed altri ospiti.
Il letto centrale era quello destinato agli ospiti più importanti, tra i quali sedeva, per modo di dire, il personaggio più prestigioso in assoluto; quelli laterali erano il sumus lectus, destinato a personalità di media levatura, e l’imus lectus, quello destinato alle persone meno importanti in assoluto e tra le quali il domine sedeva in segno di umiltà. Questa disposizione si riaveva poi, anche durante i ricevimenti ed i banchetti più importanti, dove i triclinia erano molti di più.
Al centro, posti tra i letti triclinari, vi erano uno o più tavolini che assumevano nomi differenti a seconda della forma e della funzione che svolgevano.
Quello di forma quadrata, sorretto da tre zampe, era detto cilliba, quello circolare era chiamato mensa, quello utilizzato per le bevande, infine, si chiamava urnarium.
Non si usavano forchette, solo dei cucchiai per le zuppe, quindi degli schiavi con acqua profumata alle rose e salviette vigilavano sulle necessità dei padroni di casa affinché potessero lavarsi le mani ogni qualvolta fosse necessario.
I banchettanti si stendevano sul fianco sinistro appoggiandosi ad un cuscino, recentemente uno studio di archeologia sperimentale e medicina ha dimostrato che questa posizione favorisce la digestione e l’ingestione del cibo, a riprova che già duemila anni fa, quando una civiltà era in pace, l’ingegno umano era capace di sviluppare tutto quello che gli poteva servire e dare ausilio nella vita di tutti i giorni.
Tutti noi abbiamo ben presente come le trasposizioni cinematografiche abbiano rappresentato sontuosi banchetti nelle domus romane, questo farebbe pensare ad una cucina molto grande e magari, come nel medioevo, separata dal resto della casa. Invece, la culina (questo il suo nome latino) era l’ambiente più piccolo e tetro, quando il padrone di casa, il domine, dava sontuosi banchetti non era infrequente che molte pietanze raffinate e d’effetto venissero cucinate direttamente sotto al portico del peristylium, per essere poi portate nella sala ancora calde e fumanti. La cucina era dotata di un focolare in muratura ed il fumo prodotto usciva da un’apertura sul tetto, invadendo di conseguenza tutta lo sgabuzzino che in realtà era, dal momento che il camino con relativa canna fumaria sono un’invenzione prettamente normanna. Altra dotazione della culina erano un camino, un piccolo forno per il pane e l'acquaio.
Nelle domus più grandi non poteva mancare la biblioteca e le piccole terme private usate solo dalla famiglia e dagli ospiti di maggior riguardo, per i servi e tutti gli altri c’erano sempre le terme pubbliche, all’irrisorio prezzo di due assi.
Non dobbiamo poi dimenticare il balneus, il bagno privato della famiglia padronale, collegato appunto con le terme ed anche una o più ritirate dove poter espletare le proprie necessità.

Ovunque siamo passati nella domus il pavimento è curato e splendente: nelle zone degli schiavi può essere in coccio pesto, mentre nelle zone più importanti è decorato con splendidi mosaici multicolore o, addirittura, può essere in marmo.
Certa è una cosa che non viene sempre detta: i romani, specie quelli ricchi, sapevano bene cosa fosse l’aria condizionata già duemila anni fa. Ebbene sì, perché finora abbiamo parlato dell’aspetto esteriore delle stanze di una domus, ma dobbiamo ancora vedere l’aspetto “tecnico” di questi gioielli architettonici antichi: sotto al pavimento correva un intricato serpentario di tubazioni di vario tipo: sistema fognario, riscaldamento, acqua sanitaria.
Chi crede che l’acqua corrente in casa sia una conquista piuttosto recente, ahimè, sbaglia di grosso. Grazie alle notevoli doti ingegneristiche, i romani hanno costruito grandiosi acquedotti che rifornivano le principali città, riempiendo delle cisterne di raccolta. Ora come allora, le cisterne dell’acquedotto sono le costruzioni tendenzialmente più alte di ogni comune, questo perché per caduta l’acqua riesce ad avere la pressione necessaria per uscire dal rubinetto di casa.
Allo stesso modo, i romani avevano costruito cisterne di raccolta che, con lo stesso principio, garantivano l’acqua corrente nelle fontane pubbliche e… anche in quelle private. Ovviamente, dalle fontane l’acqua veniva portata nei vari ambienti con secchi e brocche.
Altro grosso insieme di tubazioni è fornito dal sistema di riscaldamento/raffreddamento a pavimento: in questi tubi passava dell’acqua, calda in inverno e fredda in estate, così da “climatizzare” l’ambiente in modo uniforme su tutta la sua estensione.
E poi, come si vede dalla piantina, vi erano anche le ritirate, i bagni ove tutti gli abitanti della domus espletavano i propri bisogni. Anche in questo caso, chi pensa ai bagni con acqua corrente in casa come ad una cosa di non più di un paio di secoli fa, sbaglia di grosso: i bagni, o ritirate, erano ambienti assai piccoli, con un sedile forato che dava su un tubo opportunamente raccordato e nel quale scorreva continuamente dell’acqua. Accanto al sedile (in marmo quello signorile) vi era un contenitore in cui delle spugne erano immerse in acqua profumata, infilzate con degli appositi bastoncini venivano usate al posto della nostra carta igienica. Dopodiché con un semplice gesto si liberava il bastone dalla spugna e questa veniva portata via dall’acqua nel tubo di scolo. Ovviamente tale tubo portava al sistema fognario centrale della città e, per Roma, alla Cloaca Maxima.

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