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PILLOLE DI STORIA: La magia della morte

La morte.

Quello che da sempre è il tormento dell’umanità, il momento di non ritorno, quel punto oltre il quale vi è solo l’inconoscibile, divenuto noto solo ai cari che non ci sono più.

Da sempre la morte ha nelle società umane un ruolo fondamentale e cambia di connotazione per epoca storica, cultura e area geografica.

Nelle popolazioni preistoriche la morte era una sorta di rinascita, non a caso le inumazioni ci hanno svelato corpi seppelliti in posizione fetale, la stessa che prendiamo durante la crescita nel ventre materno. Una rinascita, affossati nel ventre della madre terra, a una nuova vita nelle Terre di Occidente.

Nelle culture successive, egiziane e assiro-babilonesi, la morte assume connotati mistici di trasmigrazione dell’anima del defunto da questo mondo a quello dell’oltretomba. Se da un lato la discesa di Ishtar negli inferi narra la versione assiro-babilonese (nonché la più antica versione sumerica) del mito della rinascita, sono gli egiziani la popolazione antica che più di tutti si sentono interconnessi a questo momento della vita e alla sua magia.

Nella fattispecie, gli egiziani antichi mummificavano i propri cari perché il corpo sarebbe servito loro intatto nell’aldilà. Dopo che Anubi avesse pesato l’anima del defunto con la piuma di Maat e ne avesse appurato di esser degno, il corpo sarebbe tornato a nuova vita nell’Oltretomba, al cospetto di Osiride e in compagnia di Hathor e altre divinità. In caso contrario, cioè se l’anima del defunto pesava più della piuma di Maat, Ammit avrebbe divorato il malcapitato in tutta la sua interezza, corpo e anima, condannandolo a una morte eterna e definitiva.

Nessun’altra cultura, nemmeno quella greco-romana successiva, raggiunse toni così alti di misticismo e magia intorno alla morte: addirittura molti egiziani dedicavano gran parte della loro intera vita, se non tutta, a prepararsi per affrontare la morte, l’esempio più lampante sono le tombe dei reali, i faraoni, chiamate non a caso Dimore dell’Eternità e ricoperte di disegni e pittogrammi con passi del famoso Libro dei Morti e formule magiche di benedizione.

La magia pervadeva tutta vita dell’egiziano, ovviamente in modo inversamente proporzionale alle conoscenze mediche e astrofisiche dell’epoca. Come già accennato nell’articolo sulla divinazione, infatti, è risaputo come il progresso tecnico-scientifico abbia spogliato le società moderne di tutti quei fattori legati al misticismo, il divino e il magico, dando a buona parte di molti casi una spiegazione logica e scientifica, nonché ripetibile.

Ciò non toglie che guardare a come gli antichi vivevano crea sempre un’emozione unica, tale per cui spesso (molto spesso per me) ci si chiede se in fondo in fondo la magia non sia esistita davvero. La risposta è: ovviamente sì, per loro.

Nelle società più recenti, Greci e Romani in primis, la magia era qualcosa di legato principalmente alla divinazione, non aveva più il potere di scacciare i demoni o di curare i malati come per gli egiziani. Lo studio aveva portato – specialmente in epoca romana – a una maggior comprensione del corpo e della medicina. Non è un caso, quindi, se in epoca romana si diffuse largamente l’uso dell’incinerazione dei corpi. Pur nel mantenersi legati al regno dei morti e ai cari defunti offrendo loro libagioni e offerte e proteggendoli con grate sempre più piccole dalla perfida abitudine di inserire nelle tombe le lastre di piombo delle maledizioni, i Romani mantennero un pragmatismo invidiabile che stiamo per certi versi riscoprendo solo in tempi recenti: la tecnica dell’inumazione prevedeva di seppellire il corpo intero, magari accompagnato da un corredo funebre che occupava un sacco di suolo pubblico. Poiché era usanza seppellire i morti lungo le strade che si dipanavano dalle città, le necropoli si ingrandivano a vista d’occhio, di pari passo dell’ingrandirsi della città. Ne è un fulgido esempio Ostia Antica: per entrare nella città vera e propria dobbiamo attraversare un cimitero grande poco meno della metà della stessa. E questo perché la maggior parte delle tombe rinvenute erano destinate a ospitare urne cinerarie.

Il pragmatismo romano viene debellato con l’avvento del Cristianesimo e la magia relegata a opera del malvagio Diavolo (termine inventato da San Girolamo nel V sec. per dirla tutta) e dei suoi servitori streghe e stregoni. Tutto quanto era magico e mistico derivante da Dio e da Cristo divenne miracolo e benedizione, tutto il resto fu relegato a qualcosa di impuro e malvagio.

Eppure qualcosa è rimasto, sin dai tempi antichi, legato alla morte, anche oggi, nonostante l’avanzata tecnologia medica e scientifica: la sua personificazione, il suo renderla entità definita, tangibile, non mera assenza di vita. Dal greco Thanathos all’etrusco Carun (Carun, Caronte… ricorda niente?) e Thuchulcha, dall’induista-buddhista Yama all’egiziano Osiride, al medievale Tristo Mietitore, l’uomo ha sempre avuto la necessità di identificare in un qualche modo, pittorico o scultoreo, quell’entità che – estranea e senza scrupolo alcuno – si prende la vita di chi ci è caro per non rendercela mai più. E questa è la vera magia legata alla morte, tutt’ora esistente: quella che sviluppiamo da vivi con la nostra fantasia per continuare a cercare di spiegare l’inspiegabile, trovando talvolta risposte inaspettate che portano avanti quello che chiamiamo progresso.

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