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RACCONTO: The Fate of Eberron - 7


Sylvion uscì dall’ospedale degli halfing dopo una lunga contrattazione sul prezzo delle cure avute, contrattazione che perse smaccatamente. Non era mai stato un grande affarista e non aveva la parlantina sciolta che invece aveva scorto in Anat in un paio di occasioni passando con lei per un mercato. Se poi ci si aggiungevano le fitte che gli attraversavano il corpo scaturite dalla mutazione che aveva usato per interrogare i due padri in attesa, la segretaria al bancone aveva avuto decisamente gioco facile con lui. Eh già, aveva dovuto mantenere la mutazione più a lungo del previsto in quanto i due che lo avevano soccorso si erano in seguito dilungati sulle loro aspettative nei confronti dei nascituri.
Bah, a certa gente dovrebbero vietare di riprodursi, altroché, pensò incattivito mentre varcava il portone più alleggerito di qualche moneta d’oro; la testa pulsava dolorosamente e braccio e petto erano attraversati da lava incandescente. Appena tornato nella sua forma originale, non quella elfica che teneva per mescolarsi alla gente, aveva controllato le fasciature, punteggiate qua e là di rosso, ma non in modo preoccupante da far pensare che i punti fossero saltati. Appena fuori si appoggiò al muro dello stabile, accanto alla porta, estrasse con fare noncurante la boccetta di pillole e ne estrasse due di arancioni.
Arancioni. Ah, sì, per il dolore. Quelle rosse invece per cicatrizzare in fretta. E quelle blu per evitare infezioni. E domani devo cambiare la fasciatura. Che scocciatura.
Perso in quei pensieri in una posa indolente mentre agli occhi di chiunque sembrava concentrato sulle pillole, girò automaticamente lo sguardo intorno, individuando ostacoli, vie di fuga, osservatori inopportuni. Sorvolò sugli sguardi astiosi e diffidenti della gente che gli passava accanto, mormorando chissà quali insulse credenze su di lui e quelli come lui. Ingollò le pillole, fece un cenno a un mendicante riverso a terra che chiedeva l’elemosina all’angolo della via con un vicolo laterale e, trovati i punti di riferimento che cercava, si inoltrò in quella direzione.
Svoltato l’angolo si mosse rapido, scivolando tra le ombre, ammantandosi di tenebra. Tirò su il cappuccio della camicia nera che indossava sotto al pastrano e i suoi capelli bianchi scomparvero come per magia nel nulla.
Un gemito strozzato giunse al suo fine udito e Sylvion si immobilizzò, addossandosi al muro e divenendo quasi parte di esso tale fu l’immobilità che raggiunse. Anche il suo respiro rallentò e si fece superficiale al punto da risultare inudibile alle sue stesse orecchie.
Lentamente, frugando con lo sguardo e sussurrando imprecazioni a fior di labbra, il mendicante uscì senza saperlo allo scoperto.
«Cerchi me?»
La voce suadente del changeling ottenne l’effetto desiderato. L’uomo fece un balzo spaventato talmente grande da spiattellarsi duramente contro il muro opposto a quello da cui un’ombra di tenebra si era staccata, accompagnata dalla voce morbidamente letale.
«S-s-s-NO!»
Sylvion si accucciò portandosi all’altezza del suo puzzolente inseguitore. «Io direi di sì.»
«N-n-no, ti sb-sb-sbagli! Avevo messo qua vicino una bottiglia di qol e non la trovo più, tutto qua.»
Qol. Il torcibudella dei nani, un liquore molto in voga nei bassifondi. Un intruglio alcolico capace di stendere anche un troll, letteralmente. Sylvion lo conosceva fin troppo bene e se ne teneva alla larga. Una volta sola aveva osato raccogliere la sfida a berlo d’un fiato e si era svegliato il giorno dopo nel suo letto alla locanda senza nemmeno sapere come ci era arrivato. Senza sapere cosa fosse successo dopo che lo aveva buttato giù in un sorso solo. La testa aveva smesso di dolergli solo la sera, si era trascinato i postumi della sbornia per tutto il giorno. Non un granché come esperienza. Fece una smorfia celato nel suo cappuccio.
Sollevò la testa e i suoi occhi bianchi assomigliarono a vuote orbite di fantasmi, rilucendo sinistramente nell’oscurità rischiarata dal debole chiarore delle lanterne che sorvolavano le piazze circostanti fin oltre la punta delle torri. Sorrise e il suo fu il sorriso della morte agli occhi del mendicante che non se la fece addosso solo perché si era liberato la vescica prima di inoltrarsi a sua volta nel vicolo scuro.
«Ti aiuto a cercarla se lo vuoi.» Si offrì soave il changeling. C’erano solo due possibili motivi per cui quel mendicante lo seguisse e da come tremava uno era già andato in fumo. Quindi, l’unica spiegazione logica era che qualcuno lo avesse pagato per farlo e riferire.
«Ma no… no…»
«Perché no?»
«Ma perché…»
«Non vuoi che scopra che non è mai esistito il qol?»
«No, è che…»
Sylvion si alzò, facendo comparire come per magia una moneta di rame. «La vuoi? Dovrebbe garantirti una mezza pinta di qol.»
L’uomo guardò chiaramente tentato dall’offerta, ma poi scosse la testa, riprovando: «Te l’ho detto…»
Il changeling scostò un lembo del pastrano, mettendo in mostra il lungo pugnale appeso in cintura, l’acciaio brillò sinistro riflettendo la debole luce. Parlò gentile, con voce morbida come aveva sempre fatto, ma le parole furono pesanti come macigni per l’uomo accovacciato a terra: «La verità e la menzogna hanno un prezzo. Io ti offro entrambe, sta a te scegliere.»
Manco a dirlo il mendicante si fiondò sulla moneta, dopo esser sbiancato vistosamente. La vista acuta e adatta a guardare nel fondo della notte di Sylvion rilevarono la cosa. Interessante, pensò mentre lasciava ricadere il lembo del pastrano a coprire la lama.
«Un tizio mi ha detto di seguirvi, a te e ai tuoi amici: l’uomo di latta, il Cannith e quell’altra là, quella che si è trasformata in cane.»
«Lupo.»
«Sì, lupo, cane, fa lo stesso.»
«Continua.»
«Mi ha dato una moneta d’argento, promettendomene un’altra se gli avessi detto dove stavate.»
«E come lo contatterai?»
«Non lo farò io, sarà lui a tornare da me.»
«Capisco.» Sylvion era intrigato. Sinceramente, fottutamente intrigato e incuriosito. Ragionò velocemente, quindi decise di tornare al livello inferiore alla locanda dove alloggiava con Anat. Se non era ancora rientrata l’avrebbe attesa nella sua camera. Sorrise vacuo sotto al cappuccio. «Allora digli che lo aspetto alla locanda di Pia. Sarò lieto di scambiare due chiacchiere con chi mi cerca.»
Detto questo svanì nell’ombra, rimanendo invece a osservare il mendicante sollevarsi su gambe malferme, intascare la moneta che gli aveva lasciato e tornare verso la via principale dove, presumibilmente, si sarebbe rimesso a chiedere l’elemosina.
Sollevò la testa a guardare il cielo scuro, rischiarato appena dalle luci della città che nascondevano le stelle e si chiese se fosse stato saggio lasciar andare quell’uomo, se non fosse stato meglio eliminarlo. Ma era solo un mendicante, dopotutto, non poteva certo impensierirlo. E poi, ora che aveva lanciato quella sfida, era il caso di muoversi.
Si inoltrò nel vicolo, svoltò a sinistra e percorse a passo sostenuto le viuzze strette tra le alte torri del terzo livello e sbucò dopo poco in una zona di case basse a due o tre piani, tutte con le facciate molto elaborate. Soppesando il sacchetto di monete e sentendosi tutto sommato abbastanza in forze, decise di rimpinguare le proprie risorse alla vecchia maniera.
Assicuratosi che nessuno fosse in giro, si dileguò rapido dietro l’angolo, controllò di nuovo che nessuno potesse vederlo, aggirò la casa scelta, quella centrale di una schiera di tre prive di cani nel piccolo giardino antistante l’ingresso. Giunto alla porta posteriore non servì nemmeno il grimaldello che teneva nello stivale per forzarla. Entrò a passo felpato richiudendo pianissimo la porta alle proprie spalle e riconobbe nell’ambiente gli odori tipici di una cucina. Abituò la vista alla maggiore oscurità rispetto alla strada e quando fu sicuro si inoltrò nella casa. Le case di mercanti arricchiti erano praticamente tutte uguali. Ostentavano opulente la ricchezza accumulata e nascondevano nel posto più banale del mondo e creduto il più sicuro l’arca di sicurezza, un armadio basso fasciato di ferro e chiuso con due o più serrature diverse, spesso anche con una serratura magica.
Giunse alla porta della camera padronale silenzioso ed estrasse una fialetta. Conteneva etherim, una sostanza volatile ottenuta dall’infusione in alcol delle bacche nere di ethel, una pianta molto comune nelle foreste di Eldeen. L’etherim era un potente sonnifero, agiva in pochi battiti di cuore. Spezzata sotto al naso del padrone di casa e dell’eventuale compagna di letto – che non necessariamente doveva essere la moglie – gli avrebbe garantito ore di placido frugare nella più totale tranquillità.
La mano si allungò sulla maniglia, l’afferrò e lì si arresto.
La luna, maestosa prima donna in cielo, inondò il corridoio di luce argentea riversandola dal grande finestrone all’estremità opposta.
Il fiato sul collo gli fece rizzare i capelli sulla nuca, liberi dal cappuccio da quando era entrato in casa.
Il baluginare sotto al naso di una lama così simile a quella che teneva agganciata dietro alla schiena lo stupì.
Qualcuno era riuscito a sorprenderlo alle spalle. Dal colore grigiastro della pelle sfiorata dalla luce lunare doveva essere un altro changeling, gli unici altri che potevano avere una possibilità di questo tipo. Il mercante era stato astuto, aveva assunto come guardia notturna uno del suo stesso stampo. Quindi corrompibile. Al giusto prezzo.
Con un sorriso sprezzante si voltò piano, tenendo le mani bene in vista, pronto a contrattare.
Il fiato gli sfuggì di bocca, senza articolare nessun suono, il sorriso si cristallizzò sul viso alla vista di sé stesso che gli sorrideva sprezzante, in mano le lame in quella posa che lo portava a usarle in quella danza letale che tanto lo aveva reso famoso.

Non fu difficile per la donna raggiungere la taverna di Spurius, non era troppo distante dalla locanda di Pia, locata in quel quartiere di Sharn che chiamavano il Focolare di Bolderyn. Lungo la strada era stata avvicinata da un paio di bulli, uno aveva osato sfoderare un temperino e sventolarlo sotto al suo naso. Ragazzini che volevano giocare a fare i cattivi. Perché non avevano i soldi per farsi una scopata.
«Allora? Guarda che il mio amico qui ha un coltello e lo sa usare, non lo fare innervosire fossi in te.» L’aveva anche minacciata uno di quegli smidollati, come se non fosse stata capace di vedere da sé cosa il suo amico stava così stupidamente sventolandole sotto al naso.
«Coltello?» Aveva replicato irridente. «Tu quel cosetto lì lo chiami coltello? Spero tu non voglia far paragoni con il tuo uccello, altrimenti mi vien da pensare che hai un cardellino dentro le mutande.»
Prima che potessero replicare qualcosa tutti e tre i giovinastri si erano ritrovati una lama alla gola. Anat si era mossa fulminea e a quello più vicino al muro aveva assestato una prima pedata in pieno petto per poi battere il tacco a terra e far uscire dalla punta una lama che si era avvicinata pericolosamente alla gola, mentre la suola usava come zerbino la sua casacca mentre lo schiacciava contro il muro.
Al dongiovanni aveva regalato un graffietto superficiale sulla guancia con la lama da lancio che aveva sfilato dalla fascia che le cingeva la coscia e al provetto accoltellatore aveva messo sotto al naso il suo coltello. Una makhaira, dalla lama leggermente ricurva e ansata sul tagliente lunga mezzo braccio, finiva appuntita dopo un ingrossamento della lama monofilare. «Questo è un coltello, cuccioletto.»
I due erano corsi via a gambe levate, il terzo ancora inchiodato al muro dal suo piede se l’era fatta sotto quando aveva ghignato crudele.
Come aveva allontanato il piede con la lama di solo pochi centimetri anche lui se l’era data a gambe. A momenti la travolgeva per la fretta di fuggire. Sghignazzò divertita mentre apriva la porta del locale.
L’aria fumosa era carica di risa sguaiate, una musica strappata senza molto ritmo da un chib, uno strumento a corde che venivano colpite da dei martelletti di legno ogni volta che il suonatore pigiava un tasto. Il bancone percorreva un intero lato della sala alla sua sinistra, gli scaffali con bicchieri, boccali e bottiglie erano sovrastati da un lungo specchio, la sala non molto grande contava sei tavoli tutti affollati e molti uomini erano in piedi a gustarsi lo spogliarello che una mezzelfa stava eseguendo sulle note discordanti del chib.
Il bancone era corredato da alcuni sgabelli e uno solo era libero. Quello accanto a A.R. Jekis.
Il capitano della guardia si era cambiato indossando per l’occasione una camicia candida aperta sul petto a mostrare una cicatrice, le maniche erano state rimboccate fin sopra al gomito scoprendo così la cicatrice da bruciatura che aveva visto spuntare dal polsino finiva oltre il gomito. Le brache nere erano corredate dall’immancabile cinta di cuoio a doppio giro a cui era agganciato il fodero della sciabola. Gli stivali erano gli stessi di quella sera e la cosa non la stupiva, anche lei usava sempre gli stessi morbidi e consunti stivali militari. Nell’insieme sembrava più giovane e rilassato, forse ne avrebbe cavato qualcosa di interessante.
La musica non era troppo alta e il brusio concitato degli avventori non troppo fastidioso per le sue orecchie sensibili. L’odore acre del fumo di decine di sigari si levava a coprire il puzzo di sudore e umanità variegata presente in quel posto. Prese atto dell’oculatezza del capitano e della sua cortesia, la scelta di quel locale, se non proprio di classe comunque di un livello superiore rispetto alla maggior parte delle taverne di quel posto, non era stata casuale. L’aveva riconosciuta e da come aveva parlato aveva avuto a che fare con i morfici, quindi sapeva bene che rumori troppo forti la disorientavano.
Tirò un sospiro di sollievo mascherato da sorriso solare.
A. R. Jekis si accorse di lei non appena la sua figura si stagliò nel vano della porta. Si era fermata a studiare l’ambiente, niente di più che un’occhiata panoramica che però doveva aver colto ogni singolo dettaglio. Volse la testa ad ammirarla apertamente quando scese i tre gradini dell’ingresso con un sorriso da infarto in viso.
I capelli erano raccolti in modo pratico e semplice in una coda, nulla a che vedere con quell’acconciatura sfatta di poco prima. Anche se non gli era dispiaciuta la visuale che aveva avuto su quel corpo tonico drappeggiato alla meglio con quanto rimaneva del vestito elegante, si rifece abbondantemente gli occhi anche in quel momento.
Le gambe lunghe erano fasciate in un paio di brache di denim aderenti come una seconda pelle a evidenziare quel ‘lato B’ che già aveva avuto modo di apprezzare e che adesso gli accese nuove fantasie. Una cameriera piuttosto discinta gli passò accanto catturando la sua attenzione per lo spazio di un respiro, ma poi tornò a puntare gli occhi d’acciaio sul generale, risalendo dalle gambe allo stomaco lasciato scoperto dalla casacca corta appena sotto al seno e dalla giubba militare in quel verde schifoso dell’esercito di Cyre, corredata di mostrine. Aveva un tatuaggio intorno all’ombelico.
Ma guarda te, anche i morfici hanno un ombelico, si stupì di quel pensiero assurdo.
Quando lei gli si sedette accanto volgendo le spalle al palco su cui la mezzelfa si dimenava languida contro una colonna piazzata ad arte esibendo le proprie grazie, comprese che era inutile prendersi in giro. Lei era quel generale.
Il più famoso, il più giovane, il più avventato e più crudele generale che avesse calcato il suolo del Khorvaire. Si diceva che avesse sbranato i suoi uomini per sfamarsi, sul finire della guerra, quando di Cyre non era rimasto nient’altro che un cumulo di macerie in un deserto gemente al vento che spirava senza sosta.
«Generale.»
«Capitano.»
Il saluto fu freddo e cortese.
«Non pensavo saresti venuta.»
Anat sorrise bieca tenendo d’occhio la sala attraverso lo specchio. Jekis ne vide il profilo puro mentre svuotava il bicchiere e si girava a posarlo sul bancone.
«Non vedo perché non sarei dovuta venire. Hai delle informazioni che mi interessano, mi hai invitata per dirmele ed eccomi qui.»
Il cinquantenne rise divertito e leggermente spiazzato. Percorse il corpo magro con uno sguardo d’acciaio brillante di interesse di tutt’altro genere e alzò una mano a chiamare la ragazza dietro al bancone. «Arlenne! Un giro qui per me e il generale! Il solito.»
Anat si chiese cosa potesse essere quel ‘solito’, ma sorvolò: qualunque cosa fosse non era certamente acqua. Sfilò da un taschino un sigaro, uno dei pochi preziosissimi sigari che si potevano trovare solo a Q’Barra, dall’altra parte del continente. Roba di classe, l’aveva definita il mercante che gliel’aveva procurata e sotto lo sguardo attento dell’uomo ne tranciò un’estremità con un tagliasigari a leva che rimise nella tasca della corta giacca militare, ultima effige insieme con il basco del suo passato. Estrasse la pietra di Volk, nera e scheggiata, e passandovi sopra un dito dalla piccola incavatura ne scaturì una fiammella.
Ogni gesto era calmo, studiato per studiare, per dare l’impressione che, nonostante il posto e l’invito volgare, era lei a condurre il gioco e non il contrario. Jekis questo l’aveva capito nel momento stesso in cui aveva puntato lo sguardo su di lei all’entrata, sull’emblema argenteo della testa di lupo con un teschio tra le fauci. Però, si disse, tentar non nuoce.
Preso il bicchiere basso e largo riempito dalla solerte cameriera fino a metà di qol, ne bevve un sorso e lasciò che il torcibudella nanico gli infiammasse la via per lo stomaco. Anat si limitò a far girare il liquido scuro come una notte senza luna nel bicchiere, fumando e aspettando.
Il silenzio calò tra loro carico di aspettative, ma la morfica aveva fatto delle attese la sua arte negli interrogatori e come previsto fu Jekis, dopo aver finito il liquore con una seconda corposa sorsata, a riprendere la parola: «E di cosa dovrei parlarti?»
Anat si portò il bicchiere alle labbra, aspirando l’aroma alcolico a fondo, godendo in segreto del lieve stordimento che solo gli effluvi di quella bevanda le dava. «Questa sera mi hai parlato di una lattina in particola, una con troppe lame a disposizione e che da cinque anni so non aver più senso di esistere. Ne hai parlato come se non fosse così.»
Quelli erano discorsi pericolosi da farsi in un luogo pubblico, ma era anche vero che in quel locale gremito di gente che badava agli affari propri erano più o meno al sicuro. «Voci che girano.»
«Approfondisci queste voci.»
«Cosa me ne verrebbe in tasca, generale?»
Anat sorrise feroce, gli occhi bruciarono come qol appena ingerito. «Chiediti piuttosto cosa ne ricaveresti a tacere.»
Con quelle parole foriere di atrocità inespresse buttò giù l’intera dose di liquore in un sol sorso.
Jekis fischiò ammirato nel vederla posare con cura il bicchiere sul bancone e tirare una lunga boccata dal sigaro. Senza dare segno di stordimento alcuno. Lui beveva il qol da quando aveva quindici anni, ma anche ora se avesse fatto un azzardo del genere sarebbe finito lungo disteso sotto al tavolo. Lei, invece, sembrava avesse appena buttato giù acqua fresca.
«Non me ne fotte molto di quello che pensi di poter fare: sono sopravvissuto al fronte orientale di Cyre, là ho perso tutto.» L’uomo fece un cenno alla cameriera, ma quella non lo vide, intenta a preparare bibite che dispose su dei vassoi per essere portate ai tavoli. Il viso ridotto a una maschera di duro cuoio invecchiato dagli anni e dalle esperienza s’indurì per un attimo, prima di riaprirsi in un sorriso allegro e scanzonato, in quell’aria rilassata che lei gli aveva visto addosso sin da quando era entrata in quella taverna. «Vedi, a tacere avrò il vantaggio di continuare questa cazzo di vita: un servizio tranquillo in una città tranquilla dove non succede mai un cazzo, un paio d’ore la sera dopo il turno a bere e rifarmi gli occhi e poi una bella scopata per concludere la giornata. La mia vita mi piace così com’è.»
Anat annuì, mise in bocca due dita e lanciò un fischio forte che attirò l’attenzione di molti avventori e delle cameriere, tra cui quella dietro al banco. Le indicò i due bicchieri e quella sembrò tentennare prima di avvicinarsi, recuperare la bottiglia di qol e versare di nuovo da bere.
«Non è detto che tu non possa continuare a fare la tua vita.»
Posò sul bancone un sigaro, accanto al bicchiere nuovo che mise giù la barista ritirando quelli precedenti con mani tremanti. I due si guardarono negli occhi e sfuggì loro il riflesso scuro nello specchio di due uomini in nero che uscivano.
«Puoi bere e fumare alla mia salute, Jekis.» Anat sorrise invitante, pur mantenendo un certo distacco. Gli prese il mento tra due dita e glielo carezzò con fare languido, concludendo: «E per la scopata si può sempre trovare un accordo. Posso permettermi di pagarti la più cara puttana di questo buco.»
Jekis aveva sentito l’eccitazione crescere, per poi franare inesorabilmente alle ultime parole della donna. La morfica ci sapeva fare, cazzo, glielo doveva riconoscere. Si aprì in un sorriso, prendendo il sigaro.
«Beh, se tu non me la dai, mi dovrò accontentare.»
Anat aspirò una boccata e gli porse il proprio tagliasigari.
Accendendosi a sua volta il sigaro e gustandone l’aroma forte e mielato si lasciò andare a un’esclamazione di piacere. «Roba di classe, questa…»
Anat attese, facendo di nuovo girare il liquore nel bicchiere. Attese. E Jekis parlò, sistemandosi questa volta come lei, lo sguardo puntato sul bicchiere. «Quello che ho sentito dire è che è rimasta in piedi una delle due torri e che la forgia fosse in quella. E, dicono, pare che sia stata accesa di nuovo.»
«Non è possibile.»
«Perché tu eri là?»
«Perché io, Sylvion, Lorian e Fender eravamo là. E abbiamo fatto saltare tutto.»
«Ti dico solo quello che si dice in giro.»
«Fonti affidabili?»
«Una di queste direi che è affidabile più di altre.»
«Sarebbe?»
«Il Trovatutto.»
«Ah. Marcus.»
«Lo conosci?»
«Abbastanza. Abbiamo lavorato insieme, in un paio di occasioni.»
«Chissà perché non mi stupisco. Sei diventata famosa come cacciatrice di forgiati e di forge clandestine.»
«Vado dove mi porta il denaro. Bisogna pur sopravvivere.»
«La pensiamo uguale. Quasi.»
«Quasi?» Anat sorrise, divertita di quello scambio.
«Non capisco perché ti porti dietro quei tre. Insomma, quel Cannith…»
«Ho i miei motivi.»
«Sarebbe un peccato che ti si rivoltassero contro… questi tuoi motivi.»
«Difficile.»
«Ah. Quindi non è perché ti fidi di loro che te li tieni appresso alle sottane.»
Anat sorrise misteriosa, sollevando il bicchiere e omaggiandolo di un brindisi silenzioso. «Pensala un po’ come ti pare.»
Jekis lo fece e lei se ne accorse. Ricambiò il saluto, prese a sua volta il bicchiere. Ma come lo ebbe a
portata di bocca, la mano ferma di lei gli impedì di scolarselo. La guardò senza capire: «Ma… cosa…?»
Anat era ferma con il bicchiere alle labbra, una furia omicida le distorceva i bei lineamenti mentre annusava il liquore, prima di riporre con lentezza il bicchiere intatto sul banco. La presa sul suo polso divenne d’acciaio e l’uomo sentì le unghie di lei conficcarsi nella carne martoriata dalla cicatrice.
Poi, bassa e ringhiante, foriera di morte la voce del generale gli fece correre un brivido che non volle riconoscere per paura lungo la schiena: «Metti giù quel bicchiere, Jekis. Bere fa male alla salute.»

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