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RACCONTO: Fate of Eberron - 1

Quello riportato qui sotto è la prima puntata di un racconto estrapolato dalle sessioni in Play by Video giocate da me medesima con Pandemyc, Tartarosso, Gunnegan e Baudaffi di Dragon Island.
Il risultato di quelle giocate con il sistema Fate (abbiamo usato il regolamento di Awesome Adventures) sull'ambientazione di Eberron è stato così epico ed esilarante al contempo che non potevo non farne un'opera scritta.
Poichè i fatti narrati si svolgono in quel del lontano (ormai) 2011, e poiché il tempo tiranno reclama buona parte della mia vita, non ho mai avuto modo di revisionare il testo come sarebbe giusto fare, spero quindi mi perdonerete per eventuali castronerie che vi troverete e spero, soprattutto, che la lettura possa regalarvi almeno un sorriso.
Troppa miticità... (cit.)



THE FATE OF EBERRON




I – La Caduta dei Cristalli






La città si ergeva tra guglie e picchi quasi stesse fluttuando nel vuoto e avesse le solide basi poggiate sulle nuvole. Sharn, la città costiera del regno di Breland, era uno spettacolo meraviglioso vista dal basso: un puntino scintillante al sole di mezzogiorno, in alto nel cielo era una perla incastonata in un lapislazzulo intangibile. I livelli inferiori si intravedevano appena velati dalle nuvole più basse, ma l’attenzione non era per questi, bensì per le torri svettanti dall’altopiano in cima alla montagna. Mozzava il fiato e la gente si riversava a frotte dal molo e dalla pianura verso gli ascensori situati nei vari punti di accesso e verso le gondole che portavano il pubblico al livello più alto della città, dove si sarebbe svolta la grande commemorazione della Caduta dei Cristalli.
Anat era affascinata, come tutti gli stranieri in quella terra quando si trovavano davanti alla magnifica eleganza aerea di Sharn.
«Allora, andiamo?» La voce del changeling la riscosse dalle sue riflessioni interiori. Lo guardò con quegli occhi neri come la notte, insondabili e duri che tanto ricordavano a Sylvion la brillante oscurità dell’ossidiana.
«Ma siamo sicuri?» Replicò incerta la donna, accompagnando la domanda con una specie di guaito ignorato dai più. Sylvion sorrise di nascosto nel notare che in quei cinque anni Anat non era cambiata, semmai i suoi istinti animali si erano affinati ancora di più. Certo, però, era che in forma umana era un gran bel vedere, anche se non ostentato come in certe nobildonne che aveva incrociato nei giorni precedenti.
«Ma sì, datti una mossa.»
Anat fece una smorfia e si accinse a salire sulla gondola accodandosi a quel compagno che aveva conosciuto come nemico e che aveva combattuto con lei e gli altri contro il tormento della sua terra gemente. Osservò di sottecchi il changeling, conscia che lui stava facendo altrettanto con quelle perle bianche e inquietanti senza soluzione di continuità tra bulbo, iridi e pupille che si ritrovava per occhi. Non era cambiato, ma la cosa non la stupiva e nemmeno la preoccupava. Qualunque aspetto esteriore Sylvion avesse preso, lei lo avrebbe comunque riconosciuto. Come tutti quelli della sua razza, Sylvion era in grado di alterare sé stesso, mutando la pelle grigio perla nel pallore quasi albino degli elfi o nel rosato degli umani, al pari era in grado di modificare anche i tratti somatici – nel suo stato normale praticamente assenti – per mimetizzarsi tra la folla in modo sicuro. L’unica cosa che non poteva cambiare era l’odore.
Questa capacità spiegava quindi perché i passanti avevano un moto di ribrezzo, nonostante la razza fosse largamente diffusa nel continente di Khorvaire: erano spie e assassini perfetti e la cosa suscitava una normale reazione di paura e diffidenza nella gente di tutte le razze. Se poi avessero saputo che Sylvion era uno dei più degni esponenti di quel che istintivamente pensavano, sarebbero indietreggiati ancora di più. Anat digrignò i denti credendo di sorridere a quel pensiero, e il bel visetto venne deturpato da una smorfia all’avvicinarsi del suo turno di salire sulla gondola.
«A che pensi, bella fanciulla?» La voce suadente e quasi sibilante del compagno le fece accapponare la pelle.
«Al fatto che ti strozzo se non la pianti di sibilarmi nelle orecchie.» Replicò acida.
«Che belle le rimpatriate!» Sghignazzò quello, imperturbabile, stirando le labbra in un sorriso a scoprire i denti, labbra di un grigio appena un po’ più scuro e talmente sottili da far sembrare la bocca un taglio su una pezza di stoffa ben tesa.
«Già, una meraviglia.» Fu la laconica risposta della morfica.
Mentre proseguivano nella coda, Sylvion ebbe agio di studiare Anat. Dopo cinque anni era arrivato il giorno in cui si erano dati appuntamento, cinque anni dopo la distruzione (o presunta tale stando alle ultime voci che aveva raccolto nei suoi viaggi) del Signore delle Lame nella sua roccaforte nel cuore della Mournland, l’antica patria della donna.
Mournland, le Lande Gementi. Una volta, prima dell’Ultima Guerra, era un regno vivo e pregno di magia – come tutto il mondo – e di gente, abitato da tutte le razze nella massima tolleranza. Un tempo le Lande Gementi erano il potente regno di Cyre. Troppo potente per alcuni… troppo ambizioso per altri. Per tutti, indipendentemente, destinato a essere sottomesso, smembrato. Distrutto. Con l’Ultima Guerra ci erano riusciti oltre ogni dire: l’impiego forsennato della magia su tutti i fronti aveva devastato in modo irreparabile quelle terre.
Anat era una dei pochi sopravvissuti di Cyre e durante la guerra si era guadagnata il rispetto di molti sovrani nemici per la fedeltà incrollabile, fino all’ultimo respiro quasi, per le capacità tattiche e per l’incredibile capacità di non perdere mai una preda designata. Le sue elucubrazioni sulla morfica che lo accompagnava furono interrotte dal dover salire a bordo della gondola e, praticamente, trascinarci dentro di peso la donna che occupava la sua mente pochi istanti prima.
Ma perchè diavolo non ho insistito per trovarsi a terra? Cazzo.
Il pensiero cominciò a rimbombare sempre più ferocemente in testa ad Anat man mano che la gondola, dopo essersi staccata dolcemente dall’approdo, iniziò a veleggiare in una lenta spirale ascendente.
Sylvion sghignazzò di nascosto al notare come Anat finisse per schiacciarsi contro il fondo della barchetta di pari passo con l’alzarsi di quota di questa. Era una cosa strana intravvedere una debolezza in quella donna formidabile. Cavolo, era riuscita a infinocchiarlo per bene quella volta con il Barone, era dovuto fuggire per non incorrere nelle ritorsioni di Devon. Maledetta, abile bastarda.
«Guarda, Anat, guarda! Che spettacolo... la piana... il mare…»
«Sì! Sì! Mi fido!»
«Non mi dirai che hai paura?»
«No!»
«No?»
«Assolutamente.»
«Non sembrerebbe.» Replicò lui, con voce dubbiosa.
«Non ho paura. Sono fottutamente terrorizzata, stronzo!»
Non ce la fece a resistere ancora. Sylvion scoppiò in una sonora risata a scapito della rossa accanto a lui che dalla panchetta era finita per sedersi scompostamente sul fondo della barca.


La visuale sulla piazza di Sharn che si apriva sul nulla avvolto dalle nubi, là dove una volta si ergeva celestiale la volta cristallina della torre più alta e più antica della città, era privilegiata dai palchi delle casate che, sapientemente, erano stati disposti a raggiera tutto intorno al perimetro. La posizione rialzata garantiva ai nobili delle casate sia della città sia ospiti delle altre nazioni di godere appieno degli spettacoli teatrali, dei giocolieri e saltimbanchi, cantanti e ballerini che sin dalle prime ore del mattino si erano succeduti sul palco centrale che si affacciava sullo strapiombo e sul quale si sarebbe svolto il clou di quella cerimonia verso il tramonto, con le torri offerte dalle undici casate lanciate giù dai propri creatori a immemore ricordo della Caduta dei Cristalli, quando dieci anni prima uno sciagurato attacco durante la guerra aveva toccato Sharn. Sharn, culla di commerci e civiltà, l’eletta, l’intoccabile. Sfigurata per sempre.
Mai nessuno avrebbe costruito in quel luogo, lo spazio vuoto a eterna memoria di ciò che era stato.
Lorian si guardò attorno, annoiato. Erano quattro anni che, in qualità di portatore del Marchio del Drago del casato Cannith, presenziava a quella cerimonia. La cosa gli tornava utile in quell’occasioni in cui, dopo cinque anni da quella grande battaglia contro il Signore delle Lame, doveva rincontrarsi con gli altri, ma restava, per lui, una giornata sprecata e dedicata alla noia. L’uomo sbadigliò sonoramente, desiderando trovarsi nel suo laboratorio a studiare nuove formule magiche da infondere negli oggetti per l’utilità comune, ma per quel giorno l’artefice – così lo chiamavano – doveva trattenersi. Forse quell’anno, con il riunirsi di quella squadra improvvisata che aveva sbaragliato i meta-forgiati e quell’abominio magico che quelli come lui avevano contribuito a creare, sarebbe stato meno noioso.
Sorrise di nascosto portandosi alle labbra un delicato calice di cristallo con del vino rosso, annuendo distratto al chiacchiericcio di una Cannith di una nazione straniera. Non ricordava da dove venisse e, in tutta sincerità, non gliene importava un accidenti.
Fender sbirciò l’amico artefice, colui che, insieme al padre, lo aveva risvegliato alla vita in quel laboratorio più di dieci anni prima. «Che hai da sorridere?»
La domanda posta dalla voce metallica e cavernosa del forgiato zittì per un attimo gli altri Cannith presenti sul palco privato, che poi tornarono a parlare tra loro indifferenti: vari forgiati erano presenti in qualità di servitori dei Cannith, nella loro visione del mondo era per quello che li avevano creati ed era per quel motivo che non venivano distrutti. Ma non tutti i Cannith la pensavano così, tutt’altro. Fender si sentì sollevato a quel pensiero, rammaricandosi di non poter infine sorridere anche lui. Dopotutto, lui era fatto di metallo, legno e fibre vegetali. «Allora?»
«Pensavo che con l’arrivo di Anat e Sylvion la festa, oggi, potrebbe rivelarsi meno noiosa del solito.»
«Umpf. Con un cane che scorrazza senza guinzaglio ci puoi giurare.»
L’artefice sorrise sotto i baffi: l’aperta ostilità di Fender e Anat era di antica data, quando stavano insieme quei due non potevano fare a meno di stuzzicarsi e punzecchiarsi. Eppure non c’era stata volta in cui non si fossero aiutati a vicenda. Non sapeva dire se erano davvero amici, Fender per la sua natura non aveva modo di esternare se non a parole o gesti plateali le sue emozioni, cosa che non faceva spesso, e Anat era sempre chiusa e impenetrabile, diventava una vera e propria fortezza emozionale quando si parlava del suo passato, di quando era il più famoso generale dell’estinto esercito di Cyre. E non si lasciava certo andare a slanci sentimentali nemmeno ora.
Tornarono ad assistere al piatto spettacolo teatrale, fianco a fianco, artefice e forgiato, restando in attesa dei compagni che da cinque anni non vedevano, sebbene le notizie sulle loro imprese non mancassero. Dopotutto, nessuno di loro sarebbe sopravvissuto alla guerra e alla dura vita della ricostruzione se non fossero stati le creature speciali che erano.

La gondola attraccò all’ultimo livello di Sharn e tutti i passeggeri scesero agilmente sulla passerella sospesa nel vuoto per poi raggiungere in tre passi la solida roccia e inoltrarsi nelle vie cittadine, mescolandosi alla fiumana di gente di tutte le razze: elfi di Valenar, nani di Mror, gnomi delle Piane di Talenta, elfi e morfici di Eldeen Reaches, genti provenienti da tutta Khorvaire, ma soprattutto da tutta Breland.  Sylvion superò d’un balzo il vuoto di pochi palmi tra la passerella e la gondola e fece per avviarsi tranquillo di essere seguito da un’Anat smaniosa di rimettere piede a terra. Fu fermato dalla voce del gondoliere, che tossicchiò imbarazzato: «Ehm... signore?»
Giratosi comprese immediatamente il problema del giovane. Anat, per l’appunto. Si era abbarbicata a una delle panche e la stringeva come se ne andasse della propria vita. Forse in reazione all’ondeggiare della gondola quando la gente aveva spiccato il balzo per scendere. Oh, merda, pensò. Tornò indietro guardando la donna pallida come un cencio, gli occhi vitrei puntati selvaggiamente contro le dita serrate del gondoliere che, dopo aver tentato di porgere la mano alla donna, l’aveva ritratta sentendola ringhiare. La natura morfica di Anat usciva prepotente quando era sotto tensione. E in quel momento lo era. Molto a giudicare dalle zanne che spuntavano dalle labbra morbide, dagli artigli conficcati nel legno della panca e dalle appuntite orecchie pelose.
 «Anat?»
«Io torno giù.» Nonostante il pallore e lo sguardo vacuo, la voce non tremò, ringhiando piuttosto l’affermazione.
«Dai, sei arrivata fino a qui.»
«Scordatelo. Io su quel trespolo non ci metto piede.»
«E’ un salto piccolo. Ti tengo la mano…» Si offrì, facendo il madornale errore di porgerle la mano.
Anat scattò, serrando i denti di scatto con furia, il viso iniziò a mutare allungandosi e lei ruggì con tono letale: «Tieni a posto le mani se ci tieni a usarle ancora!»
Il changelin sospirò rassegnato. «D’accordo, ma gli altri mi chiederanno di te.»
«Digli che sono morta. Perché è quello che succederà se mi schiodo da qui, adesso.»
«Esagerata.»
Il ringhio di risposta gli fece serrare tra due dita la radice piatta e inesistente del naso, appena sotto la fronte piatta, in un gesto più comune agli umani che ai changeling, mentre chiudeva gli occhi nel tentativo di capire come schiodare l’amica da lì. Che diamime. Amica? Beh, più o meno…
«Con un salto sei su solida roccia, non vedo dove sta il problema.» Disse infine.
«Il problema è che io non sono un uccello!»
«No, lo so, sei figlia di un lupo. Non ti facevo così vigliacca, in effetti.» Sbirciò di sottecchi la reazione. Come sperava, l’esser definita una vigliacca, lei che era il famigerato Lupo delle Lande, l’aveva punta sul vivo. Facendo finta di niente le voltò le spalle, mentre di nascosto gesticolava al gondoliere chiedendogli muto di pazientare. Sapeva bene anche lui che la fila di gondole che dovevano attraccare si stava allungando sempre di più a causa di quell’inconveniente. «Beh, ci vediamo stasera, allora, vedrò di dire a Fender e Lorian che ci aspetti dabbasso.»
«TOGLITI DAI PIEDI, SARDINA!»
L’urlo furibondo coprì la risata di trionfo di Sylvion che balzò di lato giusto in tempo per veder piombare accanto a lui la ragazza, rannicchiata a terra, le braccia lunghe, sottili e ricoperte di una corta pelliccia, la lunga coda di capelli fulvi svolazzante. Alle sue spalle si sentivano le invettive del gondoliere rese goffe dall’ondeggiare selvaggio dell’imbarcazione a causa della spinta data da Anat per spiccare quel salto.
«Visto che non era difficile?»
Anat lo gratificò di un’occhiata assassina, le lunghe zanne sporgenti dal muso ora più canino che umano. «Fottiti.»
«Vedi di ricomporti, stai dando spettacolo.»
Per tutta risposta la morfica baciò il terreno, grata in cuor suo di essere viva e infischiandosene degli sguardi curiosi e carichi di compassione per quella creatura ovviamente impazzita. Incrociò lo sguardo di un altro morfico che guardava comprensivo la sua simile.
«Ma per l’amor del cielo!» Esclamò, lo sguardo esasperato al cielo in questione e una mano che saliva a coprire il viso; si mosse lasciando la donna alle sue effusioni fuori luogo. Tanto sapeva che lo avrebbe raggiunto, prima o poi.

«Si vedono? Ormai il mezzogiorno è passato da un pezzo.»
«No, Lorian, non li vedo.»
Una cosa, Fender, la poteva fare per mostrare la propria esasperazione. Sbuffare. O, meglio, emettere un suono che assomigliasse allo sbuffo spazientito delle altre razze. Sbuffò per l’ottava volta, in risposta all’ottava domanda se si vedevano arrivare gli altri due. Non che fosse esaltante l’idea di riavere tra le scatole quella rosicchia bulloni.
Fu con sollievo che li vide avanzare tra la folla, l’uno che sgusciava con la grazia innata della sua razza quasi che sembrasse una creatura evanescente che la gente poteva appena sfiorare, l’altra con la grazia femminile di un carro armato. «Rettifico: li vedo.»
Alzò il braccio per farsi riconoscere, ma sapeva che era superfluo: stavano già puntando nella sua direzione. Quando Lorian si girò a rispondere a un altro rappresentante Cannith lui la vide, alle spalle del changelin, alzare un braccio per rispondere al saluto. Se avesse potuto sorridere l’avrebbe fatto. Quella squinternata a quattro zampe gli era mancata. Quasi. Batté di nascosto una mano sullo sportello che aveva sul torace, con un vago senso di allegria.


... Continua...

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