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Celeste e il Generale filosofo- XIII parte seconda




"Oggi si vanno a comprare i vestiti di seta in Cina,
si vanno a pescare le perle in fondo al Mar Rosso,
a trovare nelle viscere della Terra gli smeraldi,
oggi addirittura si è inventati di bucarsi il lobo delle orecchie:
non bastava portare i gioielli nelle mani, sul collo o fra i capelli,
dovevano essere conficcati anche nel corpo."
Plinio il Vecchio


Una mattina, poco dopo il ritorno di suo marito, Vibia si recò alle terme, come abitualmente faceva. Una donna, con indosso solo un minuscolo perizoma e una fascia pectoralis, entrò in acqua accanto a lei e, con studiata noncuranza prese a parlare con un’ amica, i cui capelli scuri erano raccolti in una retina sottile. Da una distanza così ravvicinata, nonostante il cicaleccio di fondo e lo sciabordio dell’acqua, si udivano chiaramente i pettegolezzi che si scambiavano le due.

“Ho ricevuto un invito a cena nella domus di Antinoo. Pare stia organizzando una grande festa per il ritorno dalla Dacia di Publio Adriano. Ci andrò di sicuro, e tu verrai con me”.
La ragazza, colta di sorpresa, impallidì. Sul suo volto si manifestarono diversi stati d’animo: sconcerto, imbarazzo, rabbia, tristezza. Le due donne sapevano benissimo che era la moglie di Adriano, e volutamente si erano fatte beffa di lei.
“Non dare peso alle sue parole. Sua madre lavora di certo alla lavanderia …” cercò di consolarla Matidia, sua sorella minore.
Vibia stava pagando il prezzo della propria ingenuità: non solo suo marito preferiva Antinoo a lei ma, cosa ancor più grave, tutti nell’Urbe l’avevano capito da tempo. Non riuscì a restare in acqua un minuto di più: una schiava solerte le porse un telo per asciugarsi e lei glielo strappò di mano, stizzita. Con la coda dell’occhio si accorse dell’espressione derisoria comparsa sul volto delle due sconosciute.
Sulla lettiga, stesa su morbidi cuscini, con la sensazione sgradevole di quel groppo in gola che precede il pianto, si sfogò con sua sorella. Le raccontò di quanto aveva appreso qualche giorno prima da uno schiavo di Adriano, del carro pieno di doni che aveva portato per il suo amante. La stessa persona le aveva anche confidato, non senza un certo imbarazzo, di un aitante schiavo dacico dai muscoli tonici e dalle mani gentili e morbide come quelle di una donna. Il suo regalo, un cofanetto di belletti in legno, malgrado fosse di fattura pregiata, impallidiva al confronto.
Lei, la moglie dai natali importanti, si sentiva a disagio e messa da parte quando sulla scena faceva la sua comparsa l’amante maschile dalle origini sconosciute.
“Non avremo mai un figlio, di questo passo. Si tiene sempre alla larga da me. Non mi desidera”. Nascose il viso tra le mani, e scoppiò a piangere.
Per qualche giorno Vibia non uscì dalla sua domus: non voleva che i commenti sprezzanti delle donne più pettegole di Roma le giungessero ancora alle orecchie, a mortificarla ulteriormente.
Una mattina, però, quando suo marito si decise a tornare sotto il tetto coniugale all’ora in cui lei usava svegliarsi, si scagliò contro di lui:
“Non puoi esporti così in pubblico con il tuo amante. Sono io tua moglie e, come tale, pretendo almeno un po’ di rispetto da parte tua”. Era rossa in viso, i capelli mossi e sciolti, e senza un filo di trucco.
“Sei al mio fianco in ogni occasione ufficiale degna di una qualche importanza. Non hai nulla di cui lamentarti” si giustificò.
“Pretendo che tu la smetta di farti vedere in pubblico con quel ragazzino vizioso. Ricordati che io sono la nipote dell’Imperatore!”La sua risposta ebbe l’effetto di farla infuriare ancora di più.
Dopo quella che fu la loro prima lite coniugale, Adriano iniziò a considerare Vibia capricciosa e intrattabile: credeva di aver sposato una donna docile e sottomessa e si stava rendendo ora conto di quanto si fosse sbagliato.
Dopo quella che fu la loro prima lite coniugale, Vibia impose la sua presenza nella vita di Adriano, in ogni occasione, ripromettendosi di non dimenticarsi mai più della propria posizione:  a fare le spese per prime di questo suo cambiamento furono le due pettegole, a cui fu bandito l’accesso delle terme nel territorio dell’Urbe.

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