Celeste e il Generale filosofo- VIII capitolo
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Tabula Traiana |
*« IMP(erator)
CAESAR DIVI NERVAE F
NERVA TRAIANVS AUG(ustus) GERM(anicus)
PONTIF(ex) MAXIMVS TRIB(unicia) POT(estate) IIII
PATER PATRIAE CO(n)S(ul) III
MONTIBVS EXCISI[s] ANCO[ni]BVS
SVBLAT[i]S VIA[m r]E[fecit] »
NERVA TRAIANVS AUG(ustus) GERM(anicus)
PONTIF(ex) MAXIMVS TRIB(unicia) POT(estate) IIII
PATER PATRIAE CO(n)S(ul) III
MONTIBVS EXCISI[s] ANCO[ni]BVS
SVBLAT[i]S VIA[m r]E[fecit] »
VIII capitolo
Celeste si svegliò col cuore a mille: centinaia di soldati
erano impegnati a battere dei tamburi con lo scopo di incutere timore nei
nemici.
La ragazza sarebbe certo corsa via a gambe levate se Caius
non l’avesse rassicurata con un ultimo bacio, prima di andare a comandare i suoi
uomini, e se Emilio, il liberto, non si fosse offerto di restare a proteggerla.
“Sono io a dover ringraziare te, mia bella signora! Sarei
morto di certo là fuori. Mi avrebbero di sicuro spedito con pochi colpi nei
Campi Elisi.” Disse, sorridendo dello scampato pericolo, il giovane legionario.
Celeste lo abbracciò e, chiudendo gli occhi, rivolse una
preghiera silenziosa a Calliste, la sorella prematuramente scomparsa, perché
dai Campi Elisi proteggesse il suo uomo. Come colta da un’improvvisa
ispirazione, la giovane poi pose una domanda all’amico.
“Per caso, sai intagliare il legno?”* domandò speranzosa.
Caius Naevius Victor amava il momento immediatamente prima
dell’inizio della battaglia.
Gli piaceva, inoltre,
dover parlare ai suoi uomini per incoraggiare e spronarli a dare sempre il
massimo contro il nemico.
E, infine, adorava lanciare al galoppo il suo sauro nero con
il gladio ben puntato contro i nemici.
Caius Naevius Victor odiava, però, macchiarsi il volto e la
corazza col sangue dei suoi avversari.
Non amava le frecce che fioccavano improvvise e da cui non
riusciva mai a difendersi adeguatamente.
E, certamente, non gli piaceva cadere da cavallo, rischiando
di ferirsi insieme ad esso.
Caius spronò il suo sauro nero al galoppo, senza guardarsi
indietro, certo che tutti i suoi uomini lo avrebbero seguito.
L’imperatore Traiano era a qualche spanna di distanza, e
Adriano era al suo fianco, concentrato e teso.
Il primo barbaro che il Generale Caius Naevius Victor aveva
ucciso in vita sua era solo un ragazzo, poco più di un bambino. Lo stesso Caius
non era che una giovane leva che godeva, però, del rango di cavaliere,
spettatogli per il suo ceto aristocratico.
Al generale filosofo ancor oggi capitava di sognare, la
notte prima di una battaglia importante, di quel giovane nemico a cui il suo
gladio aveva strappato la vita troppo presto. Caius lo aveva guardato negli
occhi dopo averlo colpito, trasgredendo una delle prime regole che ogni buon
soldato deve imparare: “mai guardare gli occhi di chi hai ferito a morte”.
Gli occhi vitrei e azzurri del giovane barbaro erano
sbarrati e rivolti verso un punto lontano del campo, il sangue gli colava
copioso dalla bocca macchiandogli la bella tunica gialla che un’amorevole madre
aveva cucito per lui, e i capelli biondicci non riuscivano a nascondere lo
scempio che gli zoccoli del sauro nero di Caius avevano fatto alla testa del
ragazzo.
Quella importante lezione di vita gli era servita: anche
ora, mentre si apprestava a finire velocemente il combattimento con un
guerriero Dacio, visibilmente alle prime armi, stava già per distogliere lo sguardo da lui.
Accanto a sé, alla propria sinistra, un luogotenente
cavalcava col volto nascosto da una straordinaria maschera di ferro. Celeste si
era detta affascinata da quel tipo di maschera e Caius le aveva spiegato che
serviva a incutere timore nei nemici e a celare il proprio.
Caius si trattenne dal galoppare verso il cuore della
battaglia: “Devo restare vivo” si ripeteva mentalmente in una litania che aveva
ben poco di eroico.
Ma quasi rischiò di cadere da cavallo quando si accorse che
la testa di uno dei suoi uomini migliori
era ormai in mano ad un cavaliere Dacio , esibita come un trofeo. Una rabbia cieca mise a tacere tutte le sue paure e lo spinse a
incitare il cavallo per un’andatura più veloce.
Osservati i movimenti del proprio comandante, il
luogotenente dalla maschera di ferro ordinò agli uomini più vicini a sé di seguirlo.
Il campo, fino a pochi attimi prima verde chiaro, si tinse
di rosso.
Caius si batté con furia e molti suoi avversari
indietreggiarono terrorizzati, credendolo un Dio o qualcosa di simile. Il
luogotenente con la maschera enigmatica a nascondergli il volto fendeva colpi
con maestria e coraggio.
I corvi iniziarono a volare bassi sulle loro teste. Un soldato
Romano piuttosto codardo iniziò a pregare ad alta voce i propri Lari e Penati
perché quegli uccelli del malaugurio non banchettassero, una volta morto, con
il suo cadavere.
Traiano, sebbene ferito a un braccio, si batteva come tre
uomini e un leone insieme, e Adriano gli copriva le spalle, dimostrando un
coraggio che nessuno si aspettava.
Caius intanto, recuperata la testa del cadavere di cui il
nemico aveva fatto scempio, nel fragore della battaglia aggiunse il suo straziante
e raccapricciante urlo di dolore: ai Daci parve qualcosa di disumano, e
rafforzò la loro convinzione che il Generale fosse un essere immortale. Così,
invece di continuare a fronteggiarlo, alcuni fuggirono nella foresta.
Gli scudi ammaccati e sporchi di sangue caddero infine a
terra, insieme ai loro esausti proprietari.
Avevano vinto, eppure Caius non riusciva a gioirne: il suo
pensiero era rivolto ai tanti compagni caduti per mano del nemico.
Come prima cosa, una volta fattosi animo, il Generale andò a
congratularsi col suo Imperatore della vittoria; solo dopo si diresse alla sua
tenda per cambiarsi e lavarsi.
Celeste lo aspettava con una viva preoccupazione in volto.
“Oh, Generale! Sei vivo! ” esclamò la giovane accarezzandogli
il volto stanco.
“Te l’avevo promesso” mormorò lui commosso dall’amore che
lei gli dimostrava.
L’uomo s’immerse nella vasca e lasciò che Celeste gli
massaggiasse i muscoli indolenziti e gli pulisse la schiena. Poi, prima di
addormentarsi come un sasso lì sulla gelida terra Dacica, fu condotto dalla
ragazza di peso, ancora nudo, a letto.
Celeste che gli posava un lieve bacio sulle labbra fu
l’ultimo dettaglio che riuscì a ricordare di quel giorno di battaglia, prima che il sonno
avesse la meglio sulle sue membra provate.
Nei giorni successivi
alla Battaglia, il re dei Daci Decebalo, scosso dalla sconfitta subita e
soprattutto dall'avanzata contemporanea lungo tre fronti in una "manovra a
tenaglia", con le truppe imperiali sempre
più prossime alla capitale, inviò all'imperatore romano due ambascerie, ognuna
con una richiesta di pace. Traiano si rifiutò di ascoltare la prima, ma decise
di ricevere la seconda, composta da numerosi nobili daci che indossavano
cappelli di feltro.
Il capo dello stato maggiore dell'imperatore, Licinio
Sura, venne mandato insieme al prefetto del pretorio, Tiberio Claudio Liviano,
a discutere i termini di un possibile trattato di pace. Le condizioni dettate
da Traiano, troppo dure considerando che i Daci non avevano subito ancora
sconfitte irreparabili, furono rifiutate.*
Adriano andava avanti e indietro per la tenda imperiale,
agitato e furioso, e Traiano aveva appena saputo che Decebalo non aveva
rispettato gli accordi di pace, trasgredendoli con sfrontatezza.
“I Daci hanno osato attaccare i nostri alleati Iazigi: non
possono rimanere impuniti. Dobbiamo preparare la strategia migliore per
batterli una volta per tutte!” urlò duro l’Imperatore, sbattendo il pugno su un
tavolo.
Il vento fa sollevare le mappe militari e gli appunti di
Traiano, tra i quali alcune lettere importanti, volano per la tenda, appena
apertasi con l’entrata del Generale.
Si trovavano nel castrum di Tibiscum, e intorno, per tutta
la durata dell’inverno migliaia di immunes* erano stati messi a costruire
strade, ponti, forti e a scavare gallerie. Le costruzioni, fondamentali per le
incursioni veloci in campo nemico, avrebbero permesso ai Romani di
avvantaggiarsi sul piano tattico.
La lunga sosta
invernale aveva permesso a Celeste di comprendere cosa significasse davvero
essere un soldato di Roma.
“Ti dà fastidio che ti chiamino Graecalus?” domandò una mattina la ragazza al cugino
dell’Imperatore, mentre, stesi su una riva del fiume Danubio contemplavano da
vicino le Porte di Ferro*, dove si
stavano svolgendo i lavori più ingenti.
Oltre alla realizzazione di un ponte, Traiano aveva infatti
fortemente voluto che vi si costruisse una strada lambita dal corso del
Danubio. Sulla sponda destra un’epigrafe, la Tabula Traiana, avrebbe commemorato l’opera romana.
“Affatto, mia bella Celeste” le risponde sorridendo. “La
Grecia e la sua cultura sono parte del mio essere, ed è per me un vanto venire
chiamato così”.
Adriano era un bel giovane e la ragazza ne era in un certo
qual modo ammaliata, cosa di cui aveva finito per rendersi conto anche il
Generale stesso, che non riusciva ancora a dar voce ai sentimenti che nutriva
per la bella romana...
Note:
Il testo dell'iscrizione, in parte corrotto dal tempo, si
sviluppa su sei righe.
*« L'imperatore Cesare Nerva Traiano Augusto,
figlio del divo Nerva, vincitore dei Germani, Pontefice Massimo, quattro volte
investito della potestà tribunizia, Padre della Patria, Console per la terza
volta, scavando montagne e sollevando travi di legno questa strada
ricostruì »
* Celeste intendeva intagliara una statuetta votiva con le sembianze del Generale.
1)La Tabula Traiana è un'iscrizione latina
dedicata all'imperatore Traiano, incisa su una parete rocciosa, appositamente
intagliata, a strapiombo sulle Porte di Ferro. Oggi essa si trova inserita,
insieme ad altre vestigia d'epoca, strada romana e resti del Ponte di Traiano,
nel parco nazionale di Đerdap, nei pressi di Kladovo, in Serbia. Incisa su una
parete rocciosa, a strapiombo sulle Porte
di Ferro, è ornata con due delfini alati, rose a sei petali e un'aquila
dalle ali spiegate.
Fu realizzata al tempo delle campagne militari che lo
condussero alla conquista della Dacia, lungo una precedente strada romana che
dal 33-34 lambiva il Danubio lungo le gole di Kazan.
Negli anni sessanta l'iscrizione e un tratto della strada
romana furono oggetto di un progetto di salvataggio: l'intero blocco di roccia
fu sollevato di circa 50 metri per salvarle dall'innalzamento delle acque
dovuto alla realizzazione della diga di Đerdap.
2)Le Porte di ferro sono una profonda gola
attraversata dal Danubio lungo il confine tra Serbia e Romania. Segnano il
passaggio dai Monti Carpazi meridionali ai Monti Balcani. La navigazione
fluviale supera le Porte, che alimentano anche due centrali idroelettriche,
grazie a un canale artificiale.
Sia il toponimo rumeno, che quello ungherese (Vaskapu),
hanno lo stesso significato di porte di ferro e anzi, sono entrambi
utilizzati per riferirsi a un'intera classe di gole. Una denominazione
alternativa per l'ultimo tratto è Clisura Dunării, la Gola del
Danubio. In Serbia la gola è nota come Đerdap, che è compresa nell'omonimo
parco nazionale, un nome che, nel tratto finale, è sostituito da Đerdapska
klisura.
Nelle rocce a picco di queste gole i genieri romani, nel 33-34,
intagliarono la «spettacolare strada»,[1lambita dal corso del
Danubio e della cui ricostruzione fa cenno Traiano nella Tabula Traiana, di cui
si dirà in seguito. L'imperatore Traiano tracciò una strada militare,
proveniente da Belgrado, che passava sul fianco dei monti costeggiando la riva
destra delle Porte di Ferro per raggiungere una zona più pianeggiante. Della
strada, inghiottita dal Danubio dopo la costruzione della diga nel 1973, nulla
è più visibile, ad eccezione di qualche tratto; la Tabula Traiana,
originariamente posta lungo il percorso della strada, è stata essa stessa
salvata solo grazie al sollevamento avvenuto al di sopra del livello attuale,
insieme alle rocce in cui era ricavata e a un breve tratto dell'originaria
strada su cui essa sorgeva.
3)Storia vera: Si ingaggiò veramente una feroce battaglia
presso Tapae con il grosso dell'esercito dei Daci. Lo scontro, come anche
illustrato sulla Colonna,fu favorevole ai Romani ma a costo di un grande
spargimento di sangue, pur non risultando decisivo ai fini della guerra giacché
Decebalo poté attestarsi all'interno delle sue fortezze della zona di Orăştie,
pronto a sbarrare l'accesso alla capitale Sarmizegetusa Regia. Qui i Romani
svernarono, poiché la stagione ormai avanzata rendeva sconsigliabile attaccare
questa linea fortificata durante l'inverno
Ogni tanto ti incasini ancora con i tempi, comunque complimenti, hai reso bene la battaglia.
RispondiEliminaRicontrolla l'ultimo pezzo, passi dal passato al presente.
Cavoli è vero! XD Grazie che me l'hai detto!:)
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