RACCONTO: The Fate of Eberron - 6
Anat raggiunse incolume la locanda di Pia, al secondo
livello, pur non ricordandosi chiaramente come
ci fosse arrivata. Colpa di quella pillola che il mezz’elfo le aveva dato per
affrontare il volo.
La paura non era stata cancellata del tutto, un
terrore atavico delle altezze come il suo, nessuna pillola poteva cancellarlo.
Ma ricordava vagamente di essersi … goduta, forse, quella discesa, lo sguardo
puntato lontano su non ricordava cosa di specifico.
Gli effetti della pillola della Leggiadria l’avevano
completamente devastata, impedendole di fare cose ragionevoli e sperava tanto
di non aver dato spettacolo. Trovandosi in un comodo letto pulito e profumato e
vedendo che nulla era fuori posto e quel che restava del vestito era
ordinatamente ripiegato su una sedia, comprese che alla fine era riuscita a
raggiungere la meta e a infilarsi a letto a smaltire gli effetti di quella
droga.
«Maledetto Lorian e maledetto anche te Sylvion!»
Borbottò a mezza bocca, rialzandosi.
Nella notte di Sharn controllò l’orologio ad acqua e
si quietò nell’accorgersi che aveva dormito poco più di un’ora. Aveva tutto il
tempo per prepararsi a dovere per l’appuntamento di quella sera. Prese dal
proprio bagaglio lo specchio e si controllò viso e capelli. Sorrise al proprio
riflesso, già sapendo quale abito sarebbe stato il più adatto per l’incontro
che aveva in programma.
Senza una parola e con gesti lenti e misurati che
l’aiutarono a trovare la calma e la quiete interiore necessarie a riflettere,
Anat finì di spogliarsi, si lavò con cura tutto il corpo, quindi estrasse dalla
sua sacca a tracolla il cambio e si vestì con cura. Sciolse la crocchia
elaborata, si liberò dei gioielli riponendoli con cura e si pettinò legandosi
poi i capelli a coda in alto sulla testa. Finito che ebbe si sistemò il basco
con lo stemma del lupo che tiene tra le fauci un teschio sulle ventitré,
rinfoderò il lungo pugnale nella fondina a schiena sotto la giacca corta in
vita con i lucenti bottoni dorati e, raccolto da terra quel che rimaneva della
sua veste e del drappo viola li studiò, quindi li prese con sé e uscì.
La nana guardò in tralice la giovane donna dai capelli
rossi, quindi fece un gran sorriso, da orecchio a orecchio, rispondendo: «Ti
costerà un extra, mia cara.»
Anat prese due pezzi d’oro e glieli mostrò senza mai
distogliere lo sguardo dalla nanica ostessa:
«Fatteli bastare.»
«Fatteli bastare.»
Mentre annuiva con vigore, Pia allungò una mano, ma si
vide consegnare un solo pezzo. Anat sorrise furba: «Metà adesso, metà alla
consegna.»
«Ma, e se non mi bastasse?»
«Suvvia, non vorrai mica venirmi a dire che non hai
qualche soldo da parte per sopperire.»
Pia fece di no con la testa, salvo poi contraddirsi
prendendo tra le mani le stoffe lacere e rovinate in più punti, ma preziose e
morbide: seta e velluto. Sorrise alla ragazza dall’alto dei suoi
duecentocinquantacinque anni e gongolante annunciò: «So a chi rivolgermi.
Domani sera potrai vantare la più bella veste di tutto il Breeland!»
Fender e Lorian si diressero a Punta di Spada, l’area
del secondo livello di Sharn che dava sul porto dove una parte di questo era
sede della milizia. In quel quadrante del porto stazionava fisso anche un
distaccamento dell’esercito da cui doveva esser fuoriuscito il capitano A.R.
Jekis e dove, come scoprirono quando si identificarono al cancello, non avevano
diritto di accesso.
«Ma come! Mi ha mandato il capitano Jekis! Con l’avvallo
del comandante Gedin!»
La guardia continuava a scuotere la testa, dopo aver
ricontrollato a beneficio dell’artefice la lista degli accessi consentiti. «Spiacente,
signore, qui non risultate.»
Lorian strinse gli occhi torvo. «Fammi parlare con il tuo
superiore. Lo esigo!»
L’uomo di guardia strinse le labbra infastidito. «Sono
le tre di notte, signore, io smonto dal turno tra tre ore e il mio comandante
sta dormendo saporitamente in non so quale bordello tra le cosce morbide di una
puttana che non mi posso permettere e da cui, salvo non ci sia un attacco in
corso da parte di forze nemiche decisamente massicce, io non intendo
distoglierlo per vedermi fumare un intero anno di paga. E ora, se mi vuole
scusare, avrei di meglio di fare che star qui ad ascoltare le lamentele
piagnucolate da un cane Cannith.»
Lorian lo guardò in tralice. «D’accordo allora. Non mi
resta che chiamare personalmente il generale.»
Era una sbruffonata bella e buona, ma la maschera di
arroganza rimase salda al suo posto e fece tremare nel profondo la scorbutica
guardia del cancello, che deglutì.
Lorian mantenne lo sguardo fermo, Fender un passo
dietro di lui rimase immobile, ma appuntò lo sguardo di brace dei suoi occhi
sintetici ricavati da rubini e fiamma di forgia sull’uomo. Che tossicchiò
nervoso. «Beh, però… aspettate. Forse non hanno ancora passato gli ordini
d’ingresso non pensando che veniste a queste ore della notte. Alle volte quelli
dei magazzini sono pigri… un bel calcio in culo ci vorrebbe!»
Tentando di mantenere una facciata di controllo
l’armigero scribacchiò qualcosa su un foglio di carta, lo arrotolò, lo inserì
in un tubo e lo infilò in un buco sul bancone, tappandolo. Toccò una pietra
verde che si illuminò e il cilindro metallico venne risucchiato con un sonoro wuup!.
Si tormentò nervoso le mani, spostando fogli e penne
in attesa di una risposta. Una luce verde si accese alle sue spalle e lui si
girò inserendo una mano in una fessura nel muro dietro di lui giusto in tempo
per raccogliere un tubo uguale a quello inviato che arrivò non si sapeva bene
da dove. Lo stappò, lesse e un chiaro sollievo gli si dipinse in viso.
«Ecco spiegato tutto, signore.»
«Illuminami.»
La voce glaciale di Lorian fu una lama di tenebra
sugli entusiasmi della guardia. «Siete attesi per domani mattina a partire
dalla terza ora dopo l’alba.»
«Non ho tempo da perdere e poi domani mattina devo
prendere il treno folgore. Senti, ragazzo, lo so io e lo sai anche tu che tanto
in quel magazzino a esaminare quel forgiato io ci devo andare. Che cosa vuoi
che importi a che ora lo faccio?»
«Sì, però…»
«Ascoltami, la milizia ha richiesto il mio consulto
che per motivi urgenti non posso dare domani. Per non mancare di rispetto a
questa bella città e alla sua popolazione che mi ospita, invece di mandare
delle banali scuse scritte e non venire, preferisco dimostrare la mia
riconoscenza e partecipazione come segno di gratitudine per l’ospitalità che
non mi è mai mancata.»
Fender ringraziò gli dèi di essere quel che era.
Ringraziò gli dèi di poter disattivare a piacimento il
sistema vocale.
Ringraziò gli dèi – e Lorian – di averlo fornito di un
sistema di registrazione integrato e di riproduzione suoni ad alta fedeltà,
niente a che vedere con quei cristalli arancioni gracchianti musiche insulse.
Ringraziò gli dèi che ne Sylvion, né Anat fossero
presenti.
Perché loro come lui, se fosse stato di una qualsiasi
altra razza, sarebbero scoppiati a ridere fino a farsi venire le lacrime agli
occhi a una tale spudoratezza. Forse, da come aveva avuto modo di vedere,
sarebbero crollati seduti a terra tenendosi la pancia.
Se avesse potuto sorridere o ghignare soddisfatto come
faceva Anat quando metteva a segno uno dei suoi scherzi sui suoi ingranaggi,
l’avrebbe fatto in quel preciso istante, quando pensò candidamente che alla prima
occasione avrebbe scoperto le reazioni umane dei due compagni di avventure
facendo loro ascoltare la registrazione. Secondo lui sarebbero finiti a terra
piangendo dalle risate e tenendosi la pancia. Sì, poteva essere una buona
combinazione.
«Sì, certo, comprendo. In effetti non cambia molto e
anzi le indagini immagino proseguiranno più spedite. Prego, maestro Artimagus,
da questa parte, allora.» La voce della guardia, incredibilmente convinto, lo
riportò al presente. Sempre senza un suono che non fossero i suoi pesanti passi
metallici sulla pietra, seguì l’artefice trasportando la sua attrezzatura.
Uscito dalla guardiola il militare li accompagnò fino
a un ponte sospeso, indicando loro la strada e concludendo: «Terza traversa a
destra, magazzino 7.»
Si avviarono lungo il ponte, dove intravidero un
ragazzino, non doveva avere più di dieci o undici anni, venire loro incontro.
Era alto e allampanato, i vestiti laceri e lo sguardo timoroso dicevano di lui
che fosse un ragazzino di strada che non sarebbe dovuto essere entro i confini
di quell’area militare. Probabilmente si era intrufolato alla ricerca di
qualcosa da mangiare. Quando si accorse di loro, dopo un momento di esitazione,
il piccolo scappò via andandosi a nascondere dietro a delle casse.
Mentre finivano di attraversare il ponte su una
spaccatura profonda del terreno, usata come ultima difesa del porto militare di
Punta Spada visto che era larga quasi una cinquantina di passi, si accorse che
il bambino ogni tanto faceva capolino dalle casse con la testa per guardarli a
occhi sgranati mano a mano che si avvicinavano. O, meglio, fissava con occhi
brillanti di gioia e vivido interesse Fender.
Interdetto da quella rivelazione, all’altezza delle
casse Lorian si fermò di botto: «Esci, lo so che sei lì dietro!»
L’ordine suonò duro e scontroso anche alle sue stesse
orecchie, ma non se ne curò: aveva ottenuto l’effetto desiderato e il ragazzino
uscì a testa bassa. «Mi denuncerete?»
«Dovrei portarti per un orecchio dalla guardia, questo
sì.» Lo rimproverò l’artefice. Poi sorrise e disse più tenero: «Ma ho visto che
ti piace il mio amico. Puoi anche guardarlo, Fender non si offende mica.»
Il forgiato, sentendosi chiamato in causa, guardò
l’amico covando dietro la maschera di ferro e pietra tutti i suoi dubbi. Dubbi
fugati quando, abbassando lo sguardo, incrociò quello meravigliato, fiducioso e
assolutamente estasiato del bambino.
«Tu sei un modello astrocarrier, vero?»
«Sì, piccoletto.»
«E sei un vecchio modello senziente o un disarmato
programmato per sembrarlo?»
Fender incrociò le braccia e gonfiò il petto
mettendosi in una posa orgogliosa. «Senziente. Vecchio? Ti sembro forse
vecchio?»
Il ragazzino ridacchiò, la gioia che gli usciva dagli
occhi sembrava illuminare a giorno quella notte funesta. «Waaahh… sei proprio
come ti aveva descritto quel signore.»
«Quale signore?»
«Quello che mi ha fatto entrare a cercare cibo. Ha
distratto la guardia così sono passato. Ha detto che mi avrebbe aspettato per
aiutarmi a uscire se gli portavo qualcosa, ma non ho trovato niente.»
«E questo signore, di preciso, cosa ti ha detto di
noi?»
«Ah, no, niente, mi aveva detto di stare attento e di
non farmi prendere, ma voi non siete cattivi come ha detto. Dice di conoscervi
bene e mi ha messo in guardia, ha detto di dirgli se vi vedevo.»
Lorian strinse gli occhi e sorrise al monello per
mascherargli la sua preoccupazione. «E questo signore chi sarebbe?»
«Non lo so, aveva un gran bel mantello bordato di
pelliccia e un cappellone enorme con una piuma lunghissima.»
Lorian annuì e cambiò discorso, facilitato anche dalle
domande a raffica che il piccolo straccione poneva. Rimasero per quasi un
quarto d’ora a rispondere alle sue curiosità che, non sentendosi più
minacciato, aumentavano via via che passava il tempo. Lorian si rese conto di
essere solo una vaga figura di sfondo per il ragazzino, tutta la sua attenzione
assorbita dal forgiato. Allungò una mano e gli carezzò la testa,
scompigliandogli i capelli.
«Adesso dobbiamo andare», annunciò, per poi assumere
un’espressione sorpresa e chiedere: «Ma che hai dietro l’orecchio?»
«Eh?» Il bambino si toccò istintivamente l’orecchio
sinistro, trovandolo a posto ripeté l’ispezione anche con l’altro con lo stesso
risultato. «Cosa? Niente!»
Lorian assunse un’espressione seria e corrucciata,
scuotendo il capo. «No, no, guarda… aspetta, faccio io.» Si chinò, passò la
mano dietro l’orecchio e la ritrasse con una moneta d’argento sul palmo.
Sorrise divertito.
«Ma guarda dove vanno a infilarsi le monete, alle
volte.»
Il ragazzino guardava da lui alla moneta con occhi
grandi e tondi come piatti. «Ooohhh…»
«Beh, non la prendi? Era sul tuo orecchio, quindi è
tua. O no?»
Lesto, il bambino non se lo fece ripetere, stringendo
al petto il suo prezioso bottino li guardò con un sorriso forato su un lato,
illuminato fiocamente dalla lanterna che spandeva una calda luce dorata
all’inizio del ponte alle loro spalle. Aveva perso un dente da latte che presto
sarebbe stato sostituito. Lorian gli prese il mento e gli girò il viso,
cancellando il sorriso del piccolo, ma il suo lo rassicurò. Con un altro gioco
di prestigio fece comparire un’altra monete di rame sul palmo e gliele porse: «Un
dentino, un soldino. Non sprecarli, siamo intesi?»
Il ragazzino sembrava sul punto di esplodere, se per
la gioia, la gratitudine o la meraviglia, questo non era dato saperlo, tale era
il miscuglio di sentimenti che gli si agitò in viso prima di ringraziare
vivacemente e scappare via lungo il ponte.
«Sei sicuro di aver fatto bene?» Gli chiese il
forgiato, poco dopo, mentre raggiungevano la terza traversa.
«Bah, che problema c’è? Almeno non rischieremo di
esser traditi se lo pescano.»
«La tua paranoia di corruttore e corrotto non riuscirò
mai a comprenderla davvero.» Esclamò placido Fender, svoltando nella traversa.
Fatti pochi passi, un rumore attirò la sua attenzione. Mosse una mano davanti
al viso di Lorian in un punto scuro e una runa si illuminò sul dorso.
Inseguitori.
Lorian si fermò con la scusa di allacciarsi un
sandalo. Fender si guardò in giro e disse: «Siamo arrivati. Magazzino 7.»
«Bene.»
Accucciato a terra l’artefice mise le mani sul
selciato e lasciò scorrere il potere dai palmi. Li sentì bruciare, infuocarsi,
si distaccò da sé stesso inseguendo il percorso a ritroso, fermandosi a
guardare l’inseguitore individuato da Fender. Si rilassò.
Rialzatosi, si spazzò le brache e mormorò a mezza
voce: «è ancora quel ragazzino.
Adesso vado là e gliene dico quattro.»
Spazientito Lorian voltò le spalle al magazzino per
dirigersi alla volta di altre casse, le quali avevano costellato tutta la
strada percorsa ai lati delle vie, per dare una sonora sgridata al ragazzino
che, vide, faceva di nuovo capolino a spiarli, convinto forse di essere al
sicuro.
Fender voltò le spalle al magazzino e si accinse a
seguire Lorian.
Alla luce seguì un boato assordante.
Fender e Lorian si voltarono a guardare il magazzino 7
esplodere alla base e implodere su sé stesso con ineluttabile lentezza.
Dopo il boato, il vento iniziò a fischiare sempre più
forte, portando verso di loro la polvere sollevata dall’esplosione e frammenti
di mattoni.
«ECCHECCAZZO NO!» Urlò irosamente disperato l’artefice
a quella vista.
L’esplosione irata dell’artefice fu seguita da uno
sfrigolare di energia dalle sue mani, come piccoli fulmini azzurri che si
rincorrevano attorno a esse, mentre da sotto la camicia una luce azzurrognola
si accendeva. Il Marchio del Drago s’incendiò, bruciando la stoffa che lo
copriva esponendo il suo disegno argenteo, il potere si sprigionò rendendo
l’artefice padrone incontrastato della materia.
Lorian chiuse gli occhi e linee dorate di luce presero
vita a una nuova vista: l’energia del mondo si disvelò ai suoi occhi,
consentendogli di vedere, conoscere, mescolare e plasmare. Mosse le mani come
un direttore d’orchestra e sull’onda d’urto dell’esplosione ponteggi di pietra
veleggiarono come silfidi danzanti, andando a creare una serie di contrafforti
che l’uomo vedeva nascere e modellarsi nella mente, circondando la struttura
del magazzino e impedendone il crollo a seppellire i segreti che celava.
Ma, soprattutto, impedendo la distruzione del forgiato
di cui già Anat aveva fatto scempio.
Quando tutto fu finito e la polvere cominciò a calare
rivelando la nuova struttura del magazzino 7, Lorian crollò in ginocchio,
ansimante e con la fronte imperlata di sudore. La spalla bruciava come se lo avessero
appena marchiato a fuoco e solo allora si rese conto che Fender si era
frapposto tra lui e l’onda d’urto.
«Danni, amico mio?»
«Poca cosa. Ma la mia piastra stellare vuole farti
sapere che la prossima volta sciopera. È stufa di essere fatta alla fiamma.»
Lorian sorrise dell’ironia spicca del forgiato. «Già,
immagino. Due volte in una sola serata è un po’ troppo per essere una semplice
coincidenza, non credi?»
«Lo è ancora meno se pensi che saremmo stati lì dentro
se non ci fossimo fermati a giocare a fare i prestigiatori con quel monello.»
Lorian si sedette, tirando il fiato. Si asciugò la
fronte, sfinito dall’uso del potere. Se non aveva tra le mani la materia che
voleva plasmare finiva sempre così, incapace di reggersi sulle gambe. Si
sarebbe, anzi, volentieri disteso. Ma dubitava di poterlo fare. Già si sentiva
tutta Punta Spada in agitazione: uomini urlavano chiedendo cos’era stata, altri
sbraitavano ordini, altri ancora richiamavano i commilitoni urlando: «All’armi!!
All’armi!! Attacco!!»
Brutta situazione.
Guardò dal basso il forgiato che ancora fumava per la
violenza dello spostamento d’aria. Se non fosse stato per la sua solidità,
l’artefice constatò amaramente che si sarebbe ritrovato lanciato contro le
casse cui stava andando come un fuscello in balia del forte vento di
tramontana. Pessima situazione.
«Siamo nei guai, Fender. Guai grossi, se ancora non
sappiamo niente e già ci vogliono fare la pelle.»
Fender vide le guardie affacciarsi alla strada, poi
precipitarsi verso di loro.
«Eh, già. E il bello è che i casini sono appena
incominciati.»
«Sei poco consolante, da questo punto di vista.»
«Ci lavorerò su. I sentimenti mi sono ancora piuttosto
oscuri da capire.»
«Ma va. Non l’avevo capito.»
«La tua ironia è fuori luogo, Lorian. Specialmente con
tutta questa gente presente.»
Lorian si guardò intorno e vide militari in assetto da
guerra correre loro incontro e circondarli.
Pessima, pessima situazione.
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