RACCONTI: Seduzione ad Apulum
Elettra decise di prendere del tempo per
sé, lasciando il resto della coorte alla mansio poco fuori città. Era “a casa”,
per così dire, pur essendo originaria di un’altra regione della Dacia, quei
luoghi li conosceva abbastanza, non per esserci stata prima, quanto per la
cultura innata del popolo dacico che ancora scorreva nelle vene degli abitanti
di quelle lande.
Sollevatasi a sedere, studiò stupita la
stanzetta vuota. Lui era riuscito ad alzarsi scavalcandola e a lasciare la
stanza senza svegliarla. Guardando con una punta di rimpianto lo spazio vuoto
accanto a sé, Elettra riformulò il pensiero. Sul cuscino dalla parte del muro,
dove si era steso lui, campeggiava una rosa rossa. Una rosa a cui erano state
tolte tutte le spine tranne una.
E nel suo.
Abbigliata con una corta tunica di lino
grezzo colorata di blu slavato per meglio far risaltare la sua pelle bronzea,
delle solae morbide al posto delle dure caligae e un bracciale di rame lucidato
stretto attorno al deltoide, Elettra finì di legarsi i capelli in alto sulla
testa e aprì la porta per uscire.
«Dove te ne vai?»
La domanda gelida della sua nobile
compagna le fece svanire il sorriso di attesa che aveva sulle labbra. L’unica
cosa che Azia non era in grado di gelare era l’afosa calura estiva, cosa che
comunque non toccava la daciana tanto quanto invece toccava il suo bellissimo e
biondo comandante. «A mangiare come si deve per una volta.»
La risposta acerba non convinse la
sapiente, che si limitò a sollevare ironica un sopracciglio, finendo per far
sbuffare spazientita la daciana. «Vieni che ti sistemo i capelli.»
Elettra trasecolò: dal momento che ai
loro pasti all’aperto era sempre Azia ad occuparsene, si era aspettata una sua
reazione offesa con tanto di solita risposta tagliente (quando voleva la
sapiente aveva la lingua affilata come un rasoio) e invece, ancora una volta,
lei l’aveva spiazzata con quell’offerta.
«No, grazie, vanno bene così.»
Elettra si sentì una vigliacca, ma il
dubbio che Azia potesse fare una qualche ritorsione sui suoi capelli le era
appena balenata in testa e, a giudicare dall’occhiata di biasimo della rossa,
anche lei aveva pensato qualcosa del genere.
Azia mostrò una coppia di nastri
bianchi, impassibile e le fece segno di entrare. La sapiente non sapeva se
odiare o biasimare la guerriera, non era da lei insistere e non lo fece, se
ogni volta che cercava di essere semplicemente una buona compagna di squadra
anche in occasioni così banali doveva essere oggetto di sfiducia o scherno non
valeva davvero la pena perdere altro tempo con quegli idioti. Sbuffò, chiudendo
la porta e lanciando i nastri verso il lettino della sua stanza solitaria. Si
stupì quando sentì qualcosa fermare la porta.
Elettra si era vergognata di se stessa
per quel dubbio nei confronti della compagna, tanto più che tra donne l’aiuto e
il sostegno reciproco era ancora più sentito nella Specula, specialmente nella
Legio M Ultima di cui entrambe facevano parte. «Scusa.»
Macinò amaro a sputar fuori quella
parola, ma Azia l’apprezzò con un cenno della testa e indicando una brocca di
vino fece segno alla compagna di versarsi da bere, mentre iniziava a dispiegare
i nastri.
Con sua somma sorpresa, Elettra uscì
dopo poco più di una clessidra con un nastro bianco a esaltare le forme del
seno e della vita, mentre un secondo si intrecciava ai capelli, nascondendo il
legaccio di cuoio che aveva usato e finendo vezzoso a lambire ammiccante le
natiche.
Il giovane era al tavolo con alcuni
avventori fissi, sulle sue ginocchia era seduta una cameriera e fu forse per
questo che lo sguardo della nuova venuta era passato oltre senza nemmeno
notarlo.
Ma il ragazzo, poco più che
diciassettenne, aveva avuto modo di notare la donna e di apprezzarla da capo a
piedi, sia fisicamente, sia per il modo in cui si poneva al mondo. Sembrava una
Venere molto terrena che guardava nella stanza in cerca del trastullo di turno,
tutti passabili del suo giudizio e nessuno all’altezza delle aspettative. E tutto quello che lui pensò fu che gli sarebbe piaciuto avere una piuma tra le mani. Una piuma e... lei. Su lenzuola di seta.
«Tesoro, questa sera no.»
Il mormorio dell’egiziano, accompagnato da
una languida carezza lungo la schiena e il fianco della ragazza, fece comparire
un broncio bellissimo sulle labbra della cameriera, che poi dovette scappare
richiamata da un urlaccio dell’oste.
«Ehi Tam, è la prima volta che ti vedo
rifiutare una donna!!» Lo apostrofò uno dei commensali, gladiatori come lui in
libera uscita serale. Dopotutto, erano tutti liberi cittadini che si erano
iscritti alla scuola del lanista Decio Scauro di propria volontà, non avevano
quindi gli stessi obblighi degli schiavi comprati per le scene di massa e le
rievocazioni di battaglie dove, pur non volendo, qualche volta poteva scapparci
il morto.
L’egiziano scrollò le spalle, prendendo
la coppa piena di schiumante birra e sorridendo sotto i baffi mentre se la
portava alle labbra senza perdere di vista la donna che, dopo aver valutato,
scartato e poi atterrato un potenziale contendente si era rivolta all’oste con
un sorriso smagliante, il piede posato con leggerezza e noncuranza sulla mano
del tizio che l’aveva importunata.
Quasi nessuno si era accorto della
rapidità della scena: l’uomo si era avvicinato alla nuova venuta, le aveva
rivolto probabilmente dei complimenti dozzinali che lei doveva aver ignorato e
quando aveva estratto quella specie di punteruolo che forse definiva pugnale si
era ritrovato con lei particolarmente vicina e si era chinato come a voler
annusare il profumo dei capelli intrecciati con quel vezzoso nastro bianco,
nessuno si era reso conto – in sala – del poderoso gancio che lei gli aveva
ammollato per poi lasciarlo cadere ai suoi piedi e pestargli la mano con quelle
pianelle con una tale finta leggerezza da far spavento.
Il suo maestro avrebbe certamente
apprezzato ogni singolo movimento: preciso, essenziale, pulito. Minimale e
perfetto, sospirò lui pure intimamente ammirato. Quella era una leonessa in
caccia e quel che stava vedendo le stava piacendo.
Uno dei commensali aveva seguito il suo
sguardo, ancora ingenuamente troppo a lungo puntato sulla chioma intrecciata
con quel nastro che dondolava su quelle natiche che avevano l’aria di essere
sode come marmo e morbide come velluto. «Oh-oh… ecco perché ha rifiutato la
nostra Sarmi… una nuova preda?»
La domanda infastidì Tamer, che si alzò
con una smorfia, abbandonando a metà la birra. Si pulì la bocca passando il
dorso della mano sulla rada barba incolta che da un paio d’anni aveva iniziato
a sporcargli il mento e scavalcando la panca sorrise serafico aggiungendo
pacato: «quando capirete che le donne vanno trattate come principesse e non
come capre, scoprirete un mondo nuovo.»
Lasciando i compagni a sghignazzare
mezzo ubriachi al tavolo sul senso effettivo delle sue parole, si accinse a
seguire la donna nel cortile esterno, dove erano stati approntati dei triclinii
per cenare tra amici. Il nuovo stato di benessere portava la gente in giro
anche la sera, sebbene non ci si attardasse comunque mai troppo dopo il calar
del sole. La vide pigramente distesa su un triclinio, davanti a lei un basso
tavolino con sopra una coppa di birra. La guardò ancora e si appoggiò allo
stipite della porta, studiandola attentamente. Sentì il sangue scorrere nelle
vene più velocemente.
La sensazione di guardare una leonessa
in caccia si fece più viva e gli fu chiaro che lei dovesse essere una
guerriera. Forse una di quelle di quei reparti speciali e segretissimi di cui
aveva colto qualche voce in giro per Roma sei mesi prima.
Sorrise languido, pregustando la
possibile serata. Una principessa guerriera.
Elettra si guardò in giro
spassionatamente, per nulla colpita da ciò che vedeva. Aveva notato qualche
esemplare di maschio apprezzabile, specialmente al tavolo da cui spesso si levavano
scoppi di risa fragorose che l’oste le aveva indicato come affollato di
gladiatori della scuola di Decio Scauro.
Apprezzabili, ma non era quello che
cercava.
Non sapeva bene nemmeno lei cosa stesse
cercando in realtà e con l’amara sensazione di andare in bianco un’altra notte
si avviò quindi a un triclinio libero, sistemato nel cortile interno. Attorno a
una fontana vi erano vari triclinii disposti a distanze diverse, di modo che
fosse riservata una certa intimità al singolo come al gruppo di tre lettini.
Rimase piacevolmente colpita dalla
frescura della sera imminente che si riversava in quell’angolo della cittadina:
il caldo afoso di luglio aveva stretto in una morsa terribile tutto il
territorio e quella lieve frescura era un refrigerio non da poco. Constatò, per
l’ennesima volta, come l’opera stabilizzatrice di Diocleziano avesse portato
pace e benessere in tutto l’impero o, quanto meno, nei centri più influenti
come Apulum. La crisi dei generali imperatori dell’ultimo ventennio aveva messo
in ginocchio non solo la stabilità morale della popolazione, ma anche
l’economia e la nuova ripresa che sotto la guida imprevedibilmente saggia
dell’ultimo degli imperatori generali della serie degli illirici aveva dato una
nuova spinta, con la nascita di un sacco di nuove imprese, come per esempio
quella taberna che, espandendosi su tutta l’insula, offriva camere a noleggio,
cibo e altre fonti di sollievo, aveva sia la popina classica che si affacciava
sulla strada, sia quell’angolo più tranquillo dove poter pranzare o cenare in
un quadro veramente unico.
Moltissime piante, sia aromatiche sia
ornamentali creavano nicchie e isole di verde che separavano le varie zone,
sentieri illuminati da piccole lucerne a terra indicavano alle cameriere dove
posare con tranquillità il passo anche nell’oscurità imminente. Una moltitudine
di lucerne vennero accese da alcuni schiavi che poi le disposero in nicchie sul
muro o le appesero a cavi tirati appositamente da un muro all’altro della corte
interna poco prima del solaio del primo piano.
In quell’atmosfera magica il suo sguardo
venne calamitato da un giovane che le passò davanti per andarsi a sistemare nel
triclinio a fianco al suo, separato da una cortina di lavanda.
L’aveva ignorata.
Fu un duro colpo per la sua autostima e
il dubbio le si insinuò nuovamente in testa. La scosse, allungandosi a prendere
di nuovo la coppa dal basso tavolino e sbirciando con la coda dell’occhio il
nuovo venuto scacciò quei tristi pensieri. Aveva voglia di far sesso e, per
Giove!, quella sera l’avrebbe fatto. Era forse un peccato scegliersi un
compagno degno per una così piacevole attività?
Non ricordò mai, in seguito, come fu che
attaccarono bottone. Qualcosa riguardo a compagni di cena che avevano dato
buca. Una balla colossale per lei, per l’altro forse no visto che aveva
ordinato per due senza alcun indugio, salvo poi finire per condividere con lei
la cena.
Nel chiarore danzante delle lucerne,
solo quando si era stesa accanto a lui sul suo triclinio si era resa conto di
quanto fosse giovane. Un giovane uomo dotato di una serie notevole di muscoli e
di un sorriso a dir poco affascinante. Un connubio che – se non le annebbiò la
testa – comunque apprezzò grandemente facendole dimenticare la sua giovane età:
era chiaro che dal tonsores per farsi la barba non aveva certo l’abitudine di
andare.
«Tamer Aziru Khenzer, mia signora. Spero
mi perdonerai la cafonaggine e vorrai onorare il mio desco della tua superba presenza.»
Un adulatore nato. Su questo Elettra non
ebbe alcun dubbio, mai.
«Perché no?» Aveva ribattuto, lanciando
i piedi nudi oltre il bordo del suo lettino e alzandosi dopo aver osservato
stupita la mano tesa davanti al suo naso, mano che prese e che l’aiutò, per poi
accompagnarla con gesti attenti e delicati alla nuova sistemazione.
In un primo momento aveva pensato, la
guerriera, che il giovane egizio fosse un diplomatico o qualcosa del genere,
aveva scartato l’Achaia come provenienza per il leggero accento presente nel
suo fluente latino – troppo aulico per un semplice popolano – ed era rimasta
piacevolmente stupita quando lui le confessò di essersi messo a contratto con
il lanista.
«Sei un gladiatore?»
«Sì, reziario.»
«Uhm… un ruolo complicato con quella
rete.»
«Incredibile, ma è più complesso l’uso
corretto del tridente. È facile spostarlo nel modo sbagliato e farci impigliare
la rete che stai per lanciare.»
Elettra rise, figurandoselo impigliato
nella sua stessa rete e Tamer rise con lei, dirigendo la conversazione con
grazia e narrando le prodi gesta dell’arena. Elettra non si ricordava di aver
mai riso tanto con un uomo che, sebbene più giovane di lei di almeno un lustro,
stava dimostrandosi più nobile e signorile di tanti nobili di sua conoscenza.
Le piaceva.
«E tu, mia bella leonessa?»
«Sono di scorta a una nobile romana
annoiata della grande città e decisa a scoprire il mondo.» Il tono in cui lo
disse fece comprendere a Tamer che l’argomento era delicato e con un sorriso di
scusa lui si allungò a prendere la ciotola di acqua profumata per lavare le
mani e porgerla alla sua compagna di quella cena.
«Deduco che questa sera sei libera?»
«Come il vento. Almeno… fino all’alba.»
Tamer strinse le labbra e gli occhi, tra
il sospettoso e il divertito. «Allora dobbiamo trovare di che svagarti, non
credi? Non possiamo lasciare che una bella donna come te si annoi.»
Ridacchiando dell’insinuazione
decisamente non velata e chiaramente canzonatoria di Tamer, Elettra rispose a
tono: «E scommetto che ti offri volontario, nevvero?»
«Io? Non lo sai che la notte è fatta per
dormire?»
Dopo un secondo di attonito silenzio i
due scoppiarono a ridere complici. Guardandosi negli occhi Elettra vide un’ammirazione
e uno strano sentimento agitarsi nel fondo di quelli di giaietto dell’uomo.
«Perdonami…» sussurrò lui, alzando la
mano e avvicinandola al suo viso.
Elettra si immobilizzò, fremente
d’attesa, fissandolo negli occhi e pregustando la carezza in arrivo. Nonostante
i calli sulle mani, aveva l’aria di saper essere… delicato. La cosa aveva uno
strano sapore di novità per lei.
La carezza non arrivò mai. Delicate come
il filo d’aria che rinfrescava la corte interna le dita di Tamer raggiunsero un
lembo del nastro che si era posato sulla sua spalla mentre ridendo aveva
agitato scomposta la treccia e lo spostò dietro la sua schiena senza mai
realmente toccarla, ma lasciando che la sensazione della carezza le scivolasse
addosso, scatenandole tutta una serie di brividi di aspettativa. «Perdonami,
Elettra… ma sei così bella quando sorridi che mi fa male al cuore…»
Quella confessione da marpione sulle sue
labbra sembrò dolce verità e per una volta la leonessa si ritrovò quasi a fare
le fusa come una gatta. Una strana sensazione si impadronì di lei: la
sensazione di essere lei stessa una preda. Una strana sensazione di piacere.
Perché, con un cacciatore così, l’idea di essere per una volta la preda la
stava attirando.
«Fai l’adulatore, Khenzer?» La domanda
le uscì roca e si umettò le labbra nervosa. Lo sentì trattenere il respiro e
distogliere con un attimo di ritardo il piede nudo dal contatto con il suo
polpaccio, contatto che lei aveva volutamente cercato e che lui aveva
volutamente ritardato a differenza delle altre due volte in cui aveva reagito
prontamente, quasi che stesse corteggiandola con estrema discrezione. Una
discrezione e un’attenzione che Elettra si trovò ad apprezzare come non mai:
quel ragazzino la stava facendo sentire speciale.
Questa volta le dita le sfiorarono il
contorno della mascella, leggere come ali di farfalla e ruvide come una cote.
Tamer le sorrise, senza mai smettere di guardarla negli occhi. «Come potrei non
esserlo sprofondando in questi occhi che promettono morbida dolcezza e sfiorando
una pelle di seta come la tua?»
La domanda era stata appena bisbigliata,
sentita da lei sola e ne percepì tutta la sincerità. L’uomo la sorprese di
nuovo allungandosi a prendere della frutta e servendo prima lei, porgendole un piattino
da cui Elettra prese un dattero. «è
stato un grande onore averti mia ospite in questa cena, Elettra. Se potessi non
farla finire… ma tutte le cose belle hanno una fine, purtroppo.»
Lei sorrise, affascinata dalla sua
sottile arte di seduttore. Era giovane, ma ci sapeva fare il ragazzo. E vista
la prestanza fisica, prometteva anche di saperci fare in altri frangenti. «Ma
proprio perché sono belle e sono finite possono rivivere per sempre nei nostri
ricordi.»
Le dita, che si erano soffermate molto
più del dovuto sotto il suo orecchio scesero lungo la gola e poi lungo la
schiena in un’invitante carezza che le scatenò addosso il fuoco. E il piacere,
per una volta, di gustare tutto, cena e dopocena.
«Sei saggia, Elettra.»
«No, sono una guerriera. I guerrieri non
sono mai saggi.»
«Ma?»
«Conoscono la filosofia, per quanto
spiccia.»
«Mi piace la tua filosofia spiccia.»
Elettra lo guardò sorniona. Prese il
dattero dalla mano di lui e se lo portò alla bocca, morsicandolo voluttuosa.
Anche lei sapeva giocare quel genere di carte e da come lui appuntò lo sguardo
sulle sue labbra per poi scostarsi leggermente da lei quando innegabile
l’erezione tradì la sua eccitazione di uomo cominciò a fare le fusa. Se non
proprio letteralmente, tutto il suo atteggiamento nei confronti del giovane
uomo fu inequivocabile. La donna si allungò, lasciando che i seni evidenziati
dal gioco di nastri che Azia le aveva fatto fossero in bella vista nell’ampio
scollo della tunica. Lo sentì mandare un gemito soffocato e sorrise di
nascosto, contenta della reazione. Anche a lei piaceva giocare alla seduttrice
e anche lei sapeva farlo con discrezione.
Prese la brocca dell’acqua e la verso
nelle due coppe. Dopo una seconda birra per lei e una caraffa di ottimo Falerno
forse troppo allungato Tamer aveva ordinato che portassero loro solo acqua. Non
si era opposta, ma non perse l’occasione di canzonarlo.
«Meritava un brindisi, questa cena.
Peccato che non possiamo farlo con l’acqua, sarebbe ridicolo.»
Labbra bollenti le sfiorarono la base
della gola in un bacio tanto leggero quanto mozzafiato.
«Voglio essere lucido in tua compagnia,
Elettra e vino o birra non me lo permetterebbero.»
Era stato un sussurro suadente al suo
orecchio, sussurro che scatenò altri piacevoli brividi. «Davvero?»
«Davvero. Mi picchieresti se sapessi
quante cose vorrei lucidamente farti, mia signora.»
Ritraendosi per guardarlo meglio, lei
sorrise scanzonata e seducente. «Prova a dirmele lo stesso… magari non ti picchio.
Magari mi potrebbero piacere…»
Lui ammiccò, come imbarazzato. La guardò
di sotto in su e sorrise invitante, ma non fu un invito il suo: «Sei proprio una
principessa guerriera… bella e invitante tanto quanto forte e letale.»
Elettra arrossì di piacere a quel
complimento, scostandosi lievemente imbarazzata. «Guerriera sì, ma principessa…
proprio no.»
Tamer seppe di averla conquistata, ma
senza dare nulla per scontato e godendo appieno di quel gioco, le avvicinò al
viso un altro dattero.
Sorpresa, Elettra si trovò a un soffio
dal viso il volto giovanissimo dell’uomo, occhi di giaietto ardenti come braci,
carichi di mille e più promesse, una più peccaminosa dell’altra. Si trovò a
deglutire a vuoto, il respiro mozzato in gola, la pelle solcata dall’elettrica
tensione che si era andata creando tra loro.
«Elettra…» Il suo nome pronunciato come
una supplica strozzata le fece intendere che stava per succedere qualcosa. Era
stato bellissimo lasciargli condurre il gioco per tutta la sera, ma se non si
sbrigava a proporle qualcosa di interessante per il dopocena avrebbe seriamente
ragionato sulla possibilità molto poco remota di caricarselo in spalle e
portarselo alla sua stanza alla mansio. Aprì la bocca per chiedergli cosa
volesse e se la sentì chiudere da un bisbiglio a fior di labbra: «Elettra,
perdonami, ma sei così bella… e non solo fisicamente, sei tu bella, come
persona, tutta. Sì, sei proprio una principessa.»
«Adulatore.» Trovò la forza di replicare
con voce strozzata la daciana, ammaliata da quello sguardo.
«Forse un po’.»
«C’è qualcosa che vuoi chiedermi,
Khenzer?»
Sentì, percepì più che vederlo il
sorriso di lui, un sorriso carico di sollievo. «Speravo me lo domandassi…»
«Uh?»
«Vuoi essere la mia principessa, Elettra
Igea? Non posso che offrirti me stesso, mia principessa guerriera, me stesso e
un fiore per una notte.»
«Una soltanto?»
Lui sorrise languido, un lieve lampo di
trionfo illuminò il suo sguardo carico di desiderio ed Elettra ne fu
stranamente compiaciuta. «Una soltanto, Elettra. Per cominciare. Poi… chi lo sa
dove ci porteranno le nostre strade?»
Prima ancora che potesse dire nulla, le
labbra si posarono morbide e leggiadre sulle sue. E quando Elettra le mosse
accettando il bacio, seppero entrambi che aveva accettato anche tutto il resto.
Sollevandosi con grazia e forza nonostante la giovanissima età, Tamer la
cinse per le spalle e sotto le ginocchia, raccogliendola abile dal triclinio e
a passo di danza, quasi, si diresse alle scale. «Ti eri preparato tutto, non è
vero?»
Lui la guardò con desiderio. «Ho una
stanza qui, non amo condividere il mio giaciglio con pulci e zecche e la scuola
gladiatoria è piuttosto scadente da questo punto di vista.»
«E il tuo lanista te lo permette?»
«Sono libero e a contratto, Elettra.
Posso fare quel che voglio del mio tempo libero.»
Con quelle parole Tamer chiuse la porta
con un calcio e solo in quel momento si concesse di dar libero sfogo al suo
desiderio. Si appoggiò alla porta e baciò la donna, profondamente,
appassionatamente. Il primo di una lunga serie di baci. L’inizio di una notte
indimenticabile per entrambi.
Il sole dell’alba illuminò il volto
disteso e assolutamente soddisfatto della donna. Elettra Igea si stiracchiò e
ricordi bollenti della notte appena trascorsa l’invasero illanguidendola.
Allungò una mano alla sua sinistra, là dove Tamer si era steso invitandola a
riposare un po’ e trovando il letto accanto a sé vuoto aprì finalmente gli
occhi.

Uscì dalla stanza dopo poco, i nastri
avvolti intorno alla vita, i capelli arruffati e un sorriso felice in volto
certa che non si sarebbe dimenticata mai di Tamer Aziru Khenzer.
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