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La seduzione del male


La ferita venne inferta nel più stupido dei modi. Tamer Aziru Khenzer bestemmiò vigorosamente e rispose al colpo affondando la lama dritta del suo gladio nel ventre del suo assalitore.
Si era distratto.

Idiota.

Crollò a terra, incapace di restare in piedi, e se non fosse stato per il pronto intervento di Caio Cornelio Scipione Renano, era certo che avrebbe passato un brutto quarto d’ora. «Riformisti del cazzo.» Sputò acido, tenendosi le mani sull’inguine, a tamponare una ferita che pompava sangue al ritmo convulso del suo cuore sotto sforzo. «Cani rognosi, finocchi…»

La sfilza di imprecazioni divenne via via più fioca, colorita e fantasiosa man mano che il sangue caldo scorreva sulle sue dita. Odiava il sangue, la sua vista lo ripugnava, per questo stava sempre attento a non sporcarsene. Era paradossale, ma era così. Le sue dita vermiglie gli si conficcarono nel cervello attraverso i varchi degli occhi e lì si aggrapparono piombandolo in quel suo personale mondo d’incubo.
Qualcuno osò toccarlo, forzandolo a fargli togliere le mani senza ovviamente riuscirci. Solo quando la voce decisa di Tuscia penetrò l’incubo, si riebbe, dandosi doppiamente dell’idiota. Non avrebbe risolto nulla a perdersi in quelle fantasie di tenebra.

«Tamer! Togli le mani!»

«Tuscia, non è niente… è solo un graffio.»

Ma la stanchezza ebbe la meglio – o la spossatezza per il tanto sangue perso – e le mani di Tuscia tolsero le sue dalla ferita che subito riprese a sanguinare con rinnovato vigore. La ferita era larga, saliva dalla coscia fino a ben oltre l'attaccatura della gamba. Mezzo palmo in là e addio assalti notturni alle gonne dell'Impero. O peggio, addio arteria femorale.

«T’Challa!! Portalo subito all’infermeria! Questo maledetto imbecille rischia di rimanerci secco, stupido egiziano mangiasabbia...»

Tamer sorrise sghembo mentre T’Challa, senza troppi complimenti e ignorando le sue deboli proteste, se lo caricava in spalla come fosse stato un fuscello e si dirigeva a passo di carica verso l’infermeria improvvisata di quel campo legionario: anche Tuscia mostrava una vena estremamente fantasiosa, specialmente quando si trattava di insultarlo.
Con gli altri non le riusciva altrettanto bene, se ne sentiva quasi orgoglioso.

I venti minuti successivi furono letteralmente infernali. Avrebbe voluto far visita all’Amenti1 e tornare, era certo che sarebbe stato notevolmente meno doloroso. Dopo il terzo punto, dato con mano ferma dalla divinatrix con specializzazione medica sapienziale, Tamer si concentrò inducendosi in uno stato di autoipnosi che lo aiutò a far fronte al dolore, piombando se stesso in quello stato di voluta incoscienza vigile che consentiva a quelli come lui di resistere alle più indefesse torture.
Perché lui era, in fin dei conti, un Assassino di Seth.
Un fuorilegge per l’Impero.
Ed era uno speculator. Uno dei migliori, visto che era anche uscito dall’Isola delle Ombre non solo indenne, ma con tanto di certificato. Mancava solo che gli marchiassero i suoi gradi sui lombi come a un manzo.
Di cui avrebbe sicuramente fatto la fine se lo avessero scoperto; era sicuro che in una tale malaugurata evenienza gli avrebbero fatto delle cose molto fantasiose e nessuna che avrebbe potuto catalogare come piacevole.
La fantasia era di casa nella Specula, lo sapeva.

Il colpo di grazia al ferreo controllo che esercitava sempre su di sé lo fornì Heim facendogli bere svariate sorsate da una boccetta di “casa sua” come aveva definito quell’intruglio: un liquido puro e trasparente come acqua che bruciava come il fuoco e lasciava una scia di pulito giù per tutto l’esofago fino a esplodere nello stomaco con la forza di un calcio di mulo.
Forse perse anche conoscenza tra il tredicesimo e il diciassettesimo punto.
Non ne era certo.

Vista - finalmente! - l’inoffensività della sua vittima, Tuscia mandò fuori gli altri: le tornavano comode delle mani in più, ma Tamer era sempre stato molto controllato e sapeva che lo imbarazzava farsi curare da lei sotto gli occhi dei compagni. Non che ci fosse qualcosa di strano in questo, visto che lei era l’unico medico, ma più volte lo aveva visto svicolare le sue attenzioni e farsi delle fasciature da solo – neanche fatte male, doveva ammettere – piuttosto che sottoporsi a quelle che lui aveva definito “interminabili attimi di torturante crudele inutile agonia”. Quella volta si era offesa parecchio e gli aveva versato nella birra qualche goccia di un ben preciso preparato. Niente di mortale, ma per le successive tre notti Tamer era tornato al dormitorio prestissimo e con l'aria inconfondibile del seduttore che ha fatto cilecca.

Con una ferita del genere non aveva neanche avuto il tempo di metterlo a dormire prima di ricucirlo. Al massimo poteva stordirlo e l’intruglio di Heim – la chiamava graspa – era efficacissimo da questo punto di vista.

Come al solito Tamer non emise un lamento, se non uno o due sussulti quando l’ago aveva morso la carne. «Ho finito. Ora ti metto l’unguento e…»

«NO!»

L’esplosione di lui la lasciò paralizzata. «Come?»

«Ho detto no.» Le rivolse uno sguardo ubriaco, sorrise storto. «Fasccio da me.»

«Stai sognando, egiziano. Non sei in grado di far nulla, tu, in queste condizioni!»

«Ssshtupida.» In realtà Tamer si sentiva lui, stupido. Non riusciva nemmeno a parlare lucidamente, ma una cosa era certa: lei non gli avrebbe più messo le mani addosso. Si mosse a fatica, tirandosi su a sedere mordendosi le labbra per non urtarla con la sfilza di imprecazioni e bestemmie che avrebbe voluto tirare. «Tu, , non ci metti le mani.»

«Tamer…»

Lui, semplicemente, era troppo preso a scacciare pensieri sempre più scabrosi e inopportuni per accorgersi del tono pericolosamente basso e minaccioso di Tuscia. «Faccio da me, la so fare una medicazione.»
L’insistenza, alquanto stupida e fuori luogo, dell’egiziano, era insopportabile. Sentendosi punta sul vivo, Tuscia sbatté sul tavolo tra le gambe del sapiente il barattolo aperto di unguento e lo fulminò con lo sguardo. Poi scandì pericolosa il suo ultimatum: «Tamer. Sposta quelle mani e lasciati curare.»
Il sapiente sapeva quando doveva ritirarsi e quello era uno di quei momenti. Tieni duro, ragazzo… no, duro no! Per carità, duro no!!

Le mani di Tuscia furono gentili e rapide, sfiorarono inavvertitamente e senza alcun secondo fine parti che lui si trovò a coprirsi pudicamente con la mano e l’imbarazzo di quel momento si unì, mescolandosi in una miscela altamente esplosiva, a pensieri del tutto inopportuni su eventuali intriganti posizioni che lo vedevano meravigliosamente succube di una mora riccioluta con i capelli scompigliati come una Furia su di lui.

Oh, Grande Padre, ti prego aiutami…

Deglutì, Tamer, e tirò un profondo sospiro di sollievo quando finalmente la sentì dire: «Ora la fasciatura».

Temette di svenire e di strozzarsi. L’effetto rimbambente della graspa di Heim finì di botto il suo effetto. «Tuscia… no. Questo no, questo lo faccio da me.»

Ci risiamo, pensò lei, fortemente tentata di spaccargli il pitale in testa per farlo stare zitto.

«Ora è meglio che te ne vai.»

Di male in peggio. Tuscia lo guardò storto e, dal momento che non sanguinava e l’impiastro curativo era spalmato decise di dirgliene quattro. Si avvicinò verso la testa del lettino improvvisato, alzando sotto al naso di Tamer, che si era tirato su appoggiandosi sul gomito, un indice accusatore che sventolò come il più tagliente dei suoi bisturi, minacciosa, e iniziò la sua filippica: «Senti un po’, razza di borioso sciupafemmine, se ci tieni al tuo coso e intendi avvalertene ancora sarà bene che la pianti di fare il viziatel…»

La presa salda dietro la nuca e l’improvvisa vicinanza della propria bocca a quella del sapiente le rubò il fiato. Gli occhi di Tamer divennero vuoti e paurosi, il viso prese una piega dura in quell’espressione che talvolta prendeva con i nemici. Un’espressione che l’aveva sempre spaventata e che la spaventò anche in quell’occasione, anche se meno. Perché gli occhi d’argento questa volta non erano propriamente “vuoti”. Questa volta sembravano vuoti per celare qualcosa. Qualcosa che lei non riuscì a definire bene.

«Tuscia, per favore. Prima che succeda qualcosa di irreparabile… vattene. Per il tuo bene, va’ via.»

Aveva solo sussurrato, Tamer. Ma quel sussurro le mise le ali ai piedi non appena la presa scomparve con la leggerezza di una carezza.
Fuori della tenda, la ragazza rimase a rimuginare su quella piega imprevista. Per poi liquidare la questione con una scrollata di spalle. Tamer che la desiderava? Lui? Che desiderava lei come donna? Impossibile. Doveva essere proprio ubriaco. Ma non le riuscì di sorridere della cosa come sapeva avrebbe dovuto fare.

Dentro la tenda, Tamer lasciò andare la testa contro il duro legno del lettino. Guardò vuoto il soffitto di tela, chiedendosi cosa gli stesse succedendo. Sbattendo con ferocia la testa indietro più volte ribadì a se stesso ciò che era un vincolo sacro: nessun innocente avrebbe avuto a soffrire per causa sua.
Non poteva quindi concedersi il lusso di desiderare Tuscia. Figuriamoci amarla. Una vecchia ferita si fece sentire, ma lui l’ignorò volutamente: gli assassini di Seth non amano nessuno.

E la ferita riprese a sanguinare.



Tamer accese l'ultima candela e si girò lentamente.

Di fronte a lui, nel sotterraneo immerso nella penombra, c'era una donna, fluttuante nell'aria, con le punte dei sandali sollevate ad un palmo dal pavimento, le braccia levate in alto a formare una V, come per invocare gli dei...la posa più caratteristica per lei, sicuramente...il capo reclinato lievemente su una spalla, gli occhi chiusi come se stesse dormendo.

Sembrava stesse sollevata in aria senza sforzo. Solo lui riusciva a vedere, appena più scuri dell'oscurità che avvolgeva gli angoli della stanza, i tentacoli d'ombra che la tenevano appesa per i polsi. Più resistenti di una maglia d'acciaio, più morbidi della seta imperiale.

Le girò lentamente intorno, fino ad arrivarle alle spalle. Ad una ad una sciolse le pesanti trecce che la donna portava sul capo, finchè le sue mani non furono ricoperte da una massa di ciocche ondulate, morbide, scure, profumate, che le arrivavano fin oltre la vita. Affondò profondamente il viso in esse, aspirando a pieni polmoni quel profumo che da anni ossessionava le sue notti. 


Ti ho salvato la vita. Tu sei mia.

Rimase ancora qualche istante a godersi quella sensazione, poi tornò di fronte a lei.

Tuscia indossava una veste di lino chiaro, fermata sulle spalle da due fibule di rame. Tamer mosse appena le dita, e le fibule scattarono cadendo a terra subito seguite dalla veste.

Sapeva che lei non si riteneva una gran bellezza. Troppo magra, troppo piatta, fianchi troppo stretti, diceva. Nella fioca luce delle candele, la sua pelle chiara risplendeva come una perla. Tamer osservò come ipnotizzato il contrasto tra la carnagione delle braccia e delle spalle, resa ambrata dal sole, e quella d'avorio che di solito rimaneva nascosta sotto le vesti. Avorio morbido, liscio.

Pura. Innocente.

La sua mano scese dalla mascella, appoggiandosi proprio sopra alla fossetta per cingerle il collo con le dita. Senza neanche stringere, ma consapevole di ogni millimetro di pelle che toccava, dei muscoli che vi erano sotto. Poi scese ancora, fino a posarla sul seno sinistro, sulla piccola areola scura, con lo stesso gesto con cui lei più volte gli aveva controllato il battito cardiaco.
E ora lo sentiva, il battito del suo cuore, lento e cadenzato contro quelle costole fragili.
Quella sensazione lo travolse più potente di un orgasmo. Era il piacere supremo dell'assassino.

Sapere che un cuore batte ancora solo perché sei tu a permetterglielo.



Tamer urlò, svegliandosi di soprassalto e artigliandosi il petto con le dita.
Annaspò, cercando aria, poi pian piano si rese conto che non era in quel sotterraneo. Era nella mansio di posta dove si era addormentato la sera prima.
Un attimo dopo, il ricordo del sogno lo immerse come una marea di liquami, avvolgendolo, soffocandolo. Di incubi in vita sua ne aveva fatti tanti, ma mai uno che lo riempisse così tanto di disgusto verso sè stesso.

Io non sono così. Io non lo farei mai.

Era inutile continuare a ripeterselo. Era un Maestro d'Ombre e un Assassino di Seth.
Nonostante quello che poteva credere la gente comune, gli Assassini avevano un codice d'onore preciso. Uccidere chi infrange la Regola di Maat. Uccidere i colpevoli. Uccidere i criminali. Mandarli nell'Amenti1 per vedere le loro anime divorate dalla mostruosa Ammit2. Gli innocenti non dovevano essere toccati, erano loro a proteggerli. Mai uccidere solo per il puro piacere personale. Ma c'era sempre qualcuno che se lo dimenticava. Essere così bravo ad uccidere ti portava a dimenticare le leggi di Seth. Più di una volta lui e i suoi compagni erano dovuti andare a caccia di qualcuno di loro che seminava morte indiscriminatamente, che uccideva donne, uomini e bambini innocenti nei sobborghi. E dopo averlo catturato, lo riportavano al capo del loro ordine, che al cospetto di tutti gli Assassini presenti, gli tagliava la gola.
Parallelamente, anche il controllo delle ombre della Specula aveva dei lati oscuri. C'era sempre qualcuno che era più bravo degli altri e pensava di fuggire via dall'Isola delle Ombre prima di prestare giuramento all'Impero. Il risultato era lo stesso: una caccia all'uomo, solo che i Magistri della Specula in fatto di esecuzioni capitali erano molto più fantasiosi dei suoi vecchi maestri.
E ora quel sogno lo riempiva di orrore.

Non lei. Non lei.

Rimase a letto fino all'alba, coperto di sudore gelido, mentre le voci della sua maestra, Archantes, e del Magister Umbrarum gli risuonavano in testa in un'unica, ossessiva litania:

"Domina le ombre, o saranno loro a dominare te."


Note
1: Amenti: l'Aldilà per gli antichi egizi
2: Ammit: la divoratrice di anime che nell'Oltretomba egizio divorava le anime peccatrici


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