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Marco Sestio Augusto - il prefetto (Parte II)

Fine Aprile 1253 a.u.c. - Augusta Taorinorum
Erano passate due settimane da quando era arrivata nella sua domus e dovunque si girasse Marco vedeva il segno del suo passaggio. Come i fiori che aveva sparso ovunque. Specie sul suo letto. Come il muro del peristilio ora perfettamente bianco dopo che aveva ingaggiato una squadra di operai, che lui aveva dovuto pagare ovviamente, per ricoprire a calce gli affreschi. Si ricordò del giorno in cui aveva dato quell’ordine: erano nel peristilio e lui le aveva detto in presenza di altri servitori e schiavi: “Mi raccomando Rhea, starò via tre giorni, quando torno voglio che questo peristilio sia pulito come se fosse stato appena imbiancato.” Aveva messo nel tono della voce una lieve minaccia che lei doveva aver colto, ma volutamente frainteso.
Marco era appena rientrato dal suo ultimo incontro d’affari alle terme, e guardò attentamente ogni minimo dettaglio della casa, temendo di scoprire l’ultima bizzarra idea della sua nuova schiava. Rhea. Una giovane perla di rara bellezza classica. Fosse stato solo per i fiori sarebbe stato contento. Per l’imbiancata pazienza, era da tempo che sua moglie pensava di rinnovare gli affreschi. Peccato che tre sere prima quella piccola pazza avesse preparato il triclinium per una cena con dei cuscini dai colori improponibili: blu, arancione, rosso. Quando, alla fine della cena, aveva chiesto spiegazioni, lei aveva risposto candidamente: “Ho eseguito il tuo ordine: che non si veda nemmeno una macchia. Siccome alcune non venivano via, ho provveduto a mascherarle.”
Decisamente, sotto a quegli arancioni e a quei rossi le macchie non si notavano. Per non parlare di quando aveva accuratamente pulito e lucidato le sue caligae: aveva preso l’ordine alla lettera facendogli trovare anche i chiodi ben lucidi. In un mucchietto a parte. Ridacchiò divertito, nemmeno in legione si erano inventati scherzi del genere.
Sospirando si inoltrò nel corridoio colonnato del peristilio, considerando che erano passati abbastanza giorni. Aveva deciso di lasciarla ambientare prima di prenderla come amante e ancora non si spiegava tutti quegli scrupoli, nei confronti di una schiava oltretutto. Si fermò allarmato nel notare un vaso in coccio colmo di fiori di campo pericolosamente in bilico. Avvicinandosi di corsa lo spostò al centro del basamento, sapendo quanto sua moglie tenesse a quel vaso cretese. Lo scroscio di acqua che lo inondò dall’alto lo fece bestemmiare vigorosamente: si era appena messo quella toga pulita in vista della cena di quella sera con i notabili della città.
Scrollatosi l’acqua dal viso, vide un sasso dondolare dietro al basamento su cui era posato il vaso. Era appeso ad un filo di lana bianca che ben si mimetizzava con il marmo della colonna. Il filo proseguiva oltre il sasso, libero dal peso del vaso che lo teneva. Seguendo il filo bianco risalì fino in alto, alla corda dei velarii su cui si avvolgeva come una carrucola ed a cui era stato appeso un secchio. Un secchio opportunamente modificato ed agganciato a quel filo di lana bianca che ora lo teneva quasi sottosopra. Il marchingegno era semplice e diabolico, fortuna aveva voluto che l’altrettanto diabolica autrice di quegli scherzi non fosse stata perfida al punto di usare altri liquami invece che la semplice acqua che gli impregnava i vestiti. Acqua profumata alla rosa, per la precisione. Con una persistente nota di gelsomino.
“RHEAA!!!”
L’urlo riecheggiò potente per la domus.
La schiava soffocò la sonora risata. Non sperava in tanta fortuna, pensava che al massimo la vittima di quello scherzo sarebbe stato Fulvio, il tanto attento attendente di Marco. Sfortunatamente per lei, l’infuriato domine la vide mentre tentava di sgattaiolare via cercando di non farsi vedere. “Tu!!! Razza di ingrata!! Vieni qui immediatamente!” Tuonò l’uomo.
La giovane schiava si girò molto lentamente, sapendo di avere poche scuse valide questa volta. E nessuna via d’uscita, la fuga non era contemplabile. Anche perché non saprei dove nascondermi, ammise a sé stessa.
“Che accidenti pensavi di fare?” Sbraitò lui, palesemente irato.
“Uh… ecco… io…”
“Allora? Non hai una scusa pronta questa volta?”
La ragazzina strisciò un piede a terra, tenendo le mani intrecciate dietro la schiena. “Veramente, padrone…”
“Cosa??!?!”
Lei sollevò di scatto la testa a guardarlo con la sua migliore espressione contrita. Peccato che non riuscisse proprio a mascherare l’allegria ed il divertimento che le facevano brillare gli occhi. “Stavo solo sperimentando un sistema pratico per cambiare l’acqua ai fiori. Devo aver sbagliato le misure…”
L’innocenza che trasudava da tutti i pori era quanto di più finto e spudorato Marco avesse mai visto in vita sua. “NELLA MIA STANZA!!” Urlò a squarciagola, alzando di scatto la mano ad indicare la direzione e schizzandola d’acqua.
Saggiamente la schiava si ritirò silenziosa come un gatto in direzione delle stanze padronali.

Pochi minuti più tardi, il vago senso di dispiacere provato al vedere l’uomo così adirato sfumarono all’ennesimo perentorio ordine del padrone: preparargli un bagno caldo che gli togliesse di dosso quel profumo da femmina. E lavarlo, ovviamente.
Stava rimuginando su questo mentre versava l’ennesimo secchio di acqua calda in una tinozza portata nel balneus, per non sporcare l’acqua delle piccole terme private. Nascose alla vista un secchio coperto e versò nell’acqua un’intera boccetta di olio essenziale al gelsomino. Con quello che l’uomo nella stanza accanto aveva addosso di certo non si sarebbe accorto del fatto che lei ne avesse rincarato la dose. Sorrise perfidamente, sperando che lui alla fine cedesse ed allentasse la sorveglianza così da potersene andare.
“Allora, è pronto?”
La brusca domanda che arrivò dall’uomo appoggiato allo stipite della porta la riportò alla realtà. Tappò la boccetta vuota con fare sicuro, nasconderla avrebbe voluto tradire la sua colpevolezza, e con un eloquente gesto della mano ed un silenzioso inchino fece cenno al suo padrone di accomodarsi pure.
“Diamine, ragazza, hai messo tanto di quel profumo in quel secchio che mi sembra di sentirlo ovunque. Prendi il sapo e la spugna e datti da fare!”
L’ordine, ora che lo aveva dato, fece scorrere più velocemente il sangue nelle vene dell’uomo. Era tempo che quella schiava si desse una calmata e che adempisse ai suoi doveri con zelo. Tremò di orrore a quel pensiero, mentre si calava nell’acqua calda al punto giusto. Sperò che non vi mettesse troppo zelo.
La schiava scoprì di avere le mani che tremavano ed il cuore che batteva furiosamente in petto nel vedere il suo padrone completamente nudo scivolare con languido piacere nell’acqua della vasca. Prese della polvere di sapo e con qualche goccia d’acqua ne fece una morbida schiuma che andò a spalmare sulle spalle e sulle braccia dell’uomo. Poi passò al petto. Mentre proseguiva nelle operazioni di lavaggio si rese conto che faticava sempre più a respirare normalmente. Teneva la testa bassa per nascondere il proprio imbarazzo, ma la sollevò di scatto con le guance in fiamme nel notare l’evidente eccitazione di lui.
“Che c’è? Non hai mai visto un uomo nudo?” Chiese lui steso ad occhi socchiusi, a spiare le mosse della donna.
“N-no.”
La cosa lo sorprese e fece risuonare nella testa di Marco il ricordo di quando l’aveva catturata. Lo ignorò. “Davvero?”
Lei si limitò ad annuire.
Marco inspirò bruscamente. Ed il penetrante profumo dei gelsomini quasi lo stordì. Allora comprese cosa stava realmente versando nell’acqua la ragazza quando si era affacciato alla porta del balneus. “Maledizione!!! Ancora profumo!” Esplose.
Lei scattò alla porta.
Lui schizzò fuori dalla vasca, scivolando sul pavimento di marmo, ma rimase in piedi e richiuse con impeto la porta della propria camera da letto, separata dal balneus da una semplice tenda, impedendole la fuga verso il quartiere degli schiavi.
“Hai messo ancora quell’aroma nel mio bagno, vero?” Chiese con voce suadente alla piccola schiava ora imprigionata tra lui e la porta di legno massiccio.
Deglutendo nervosa, e lui si accorse del suo nervosismo, la ragazza annuì silenziosa tenendo i palmi delle mani poggiati alla porta chiusa.
“Dovrei batterti per tutti questi tuoi scherzi.”
Lei si voltò spavalda ed incosciente, fissandolo attentamente al solo viso, mentre un groppo le si formava in gola minacciando di soffocarla tanta era l’emozione di averlo così vicino. Così nudo. “È tuo diritto, domine.”
“Ma tu non smetteresti di fare scherzi, vero?”
“Perché dovrei?”
“Perché lo fai?”
“Perché sono divertenti.”
“Smettila di vendicarti di me. Capito?”
“Sì, domine.”
“Rhea…”
“Questa non è la mia vita, non è la mia casa.”
Digrignando i denti, Marco si trattenne dal prenderla a sberle. “Sei mia, Rhea. Questa ora è la tua casa. Chiaro?”
Lei non rispose, ma lui vide la ribellione in quegli occhi scuri. L’eccitazione. La curiosità. Non aveva mai visto un uomo nudo. Che fosse vergine? Era una schiava e, anche se giovane, aveva l’età giusta per essere usata. Non poteva essere vergine. Eppure aveva le guance arrossate e stava attenta a non guardarlo troppo apertamente. Sorrise nel cogliere un veloce abbassamento dello sguardo. Lo stava comunque valutando. Con tutta questa confusione in testa, fece l’unica cosa che ritenne giusta: seguì l’istinto. Si chinò in avanti e la baciò.
Lei rimase paralizzata da quel bacio. Nessuno prima l’aveva mai baciata. Non così, almeno. Stupita cercò di indietreggiare, ma si ritrovò prigioniera. Lui le si adagiò contro bloccandola contro la porta e tutti i pensieri si dileguarono dalla sua mente. La giovane donna seguì le indicazioni di quelle labbra esigenti, aprì la bocca all’invito pressante di quella lingua invadente. E si sciolse come neve al sole davanti al fuoco della passione che si sprigionò con quel primo, meraviglioso, esaltante bacio.
Come finì, Marco scoprì di ansimare e di avere il cuore letteralmente impazzito in petto. Quella risposta ingenua ed infuocata gli aveva acceso un desiderio che scorreva come fuoco liquido nelle vene. Doveva averla. Poi vide le profondità nere come la notte fissarlo sconvolte ed ammaliate, mentre timidamente lei si toccava le labbra. Stava per portarla al letto quando qualcuno bussò alla porta. “Domine, i tuoi ospiti stanno arrivando.”
La voce di Fulvio fu una scarica di acqua gelata sul suo desiderio. “Sto arrivando.” Rispose piccato.
Lasciò la presa su una schiava ancora barcollante e le puntò un dito sotto al naso. “Vai a prendermi dell’acqua e del sapo. E, per carità degli dèi, non profumarla questa, sembro appena uscito da un lupanare!!”
Ancora sconvolta per le emozioni violente che quel bacio aveva scatenato, Rhea per una volta obbedì senza fiatare e senza ulteriori scherzi. Velocemente Marco si lavò, mentre lei stendeva sul letto le vesti che sarebbe andato ad indossare quella sera. Poco dopo aprì la porta ad uno zelante Fulvio che aiutò il padrone di casa a vestirsi per la cena con i suoi ospiti.
Rhea, silenziosa e turbata, si ritirò invisibile tra le ombre della casa, raggiunse il suo pagliericcio nel cubiculum che divideva con altre schiave e vi si stese. Riuscì ad addormentarsi solo poche ore prima dell’alba.
Prima di uscire Marco sbirciò nel balneus e vide un secchio coperto decisamente fuori posto. Curioso andò ad aprirlo e si ritrovò a guardare la stanza a bocca aperta comprendendo che doveva essere stato destinato al suo bagno, se non avesse capito che lei aveva ulteriormente profumato l’acqua. Si guardò intorno e lasciò cadere, basito, il coperchio di legno in terra. Fulvio si affacciò alla porta, preoccupato dal trambusto.
“Domine, tutto be… Per tutti gli dèi!!!” L’esclamazione del suo attendente lo riscosse. Poi, tanto fragorosa quanto involontaria, la risata scosse le sue spalle ed eruppe da lui forte.
Rane.
Quella squinternata era riuscita a procurarsi decine di rane che ora saltellavano ovunque per il suo balneus privato. Ancora ridendo si diresse verso il triclium, incaricando il fido Fulvio di far pulire tutto entro sera. Raggiunse i suoi ospiti che stava ancora ridendo.

Il giorno dopo, appena sorto il sole, Marco rimase affascinato nel vedere la sua schiava preferita seduta per terra al centro del giardino interno, il viso rivolto al sole. Si appoggiò ad una colonna guardandola fino a che lei non si alzò stiracchiandosi con un bel sorriso e fu allora che la chiamò. A breve avrebbe dovuto ricevere i suoi clientes, ma prima voleva capire quella ragazza. La sera prima era stato tentato di convocarla nelle sue stanze, ma poi un dubbio strano l’aveva colto e ci aveva riflettuto a lungo, senza arrivare a niente, fino a crollare addormentato. A causa anche, probabilmente, delle ottime libagioni della cena.
Mestamente la ragazza gli si avvicinò, paventando l’ennesimo rimprovero od un altro sgradevole compito.
Marco, osservandola illuminata dai primi raggi di sole della giornata rimase senza fiato. Per gli dèi se è bella.
“Possibile che ti trovi tanto male qui?” Le chiese curioso quando gli fu vicina.
“Non è la mia casa.” Rispose lei con sussiego, pur sempre tenendo la testa china.
La sberla la colse di sorpresa. “Tu sei una mia proprietà e questa è la tua casa.”
“Sì, domine.” Replicò lei, sommessa.
Sospirando lui la prese per un gomito e, senza una spiegazione, la trascinò nel suo studium. Nella riservatezza della sua stanza personale, si concesse di essere gentile. Le sollevò il viso ad osservare il segno rosso che le aveva appena lasciato. Sbuffando, le sorrise, facendole una tenera carezza. “Sei una ragazza testarda, vero?”
“Se lo dici tu.”
Trascinandola con sé, temendo che lei tentasse di andarsene, si sedette sulla scranna prendendola in braccio. “Ti voglio, Rhea.”
Lei rabbrividì. Fece per replicare qualcosa, ma poi la vide chiudere gli occhi ed abbassare la testa. “Come tu desideri. Padrone.”
La pausa prima dell’ultima parola fu particolarmente significativa. Marco sospirò, carezzandole il collo con la scusa di scostarle una lunga ciocca di capelli. Non voleva forzarla. Non gli era mai piaciuto forzare le donne, forse era per questo che non aveva altre schiave giovani ed avvenenti in casa. “E tu cosa vuoi?”
“Vorrei non essere qui.”
“Perché?”
“Perché il mio posto non è qui. Io non sono una schiava!”
“Adesso lo sei, prima accetterai la cosa, meno dura sarà. Ti tratto forse male? Semmai è il contrario, con tutti gli scherzi che mi hai combinato.”
“No, questo no, però…”
“Però?”
La fanciulla si ammutolì, abbassando triste il capo. “Mi manca la mia famiglia.”
Marco rimase di stucco. Solo in quel momento realizzò come la ragazza parlasse bene, un latino raffinato e non quello rozzo dei popolani e degli schiavi.
“Parlami di loro.”
La dolcezza di quella richiesta, il piacevole tepore di quella mano calda che le carezzava la schiena, la solitudine che sempre la coglieva all’alba, sciolsero le ultime riserve. E la ragazza parlò. Parlò dei suoi genitori, dei fratelli, degli amici. Finì raccontandogli la più assurda storia che potesse inventarsi, Marco dovette trattenersi più volte dal ridere apertamente alla fantasia della giovane o sbottare a certe altre sue uscite sull’appartenenza alla Legio M Ultima. Questa era l’assurdità più grande di tutte quelle raccontate. Poi gli aveva detto di non chiamarsi Rhea, ma non aveva nulla a comprovare la sua identità.
Dal canto suo la fanciulla, incredibilmente, si sentiva serena ed al sicuro come mai si era sentita prima, nemmeno da bambina tra le forti e rassicuranti braccia del padre dopo un incubo era stata così serena.
Rimasero in complice silenzio per alcune clessidre, l’uomo non smise di carezzare il collo e la schiena della giovane che gli si era rilassata addosso. Nemmeno ricordava il momento preciso in cui, parlandogli della sua famiglia, lei gli si era rannicchiata tra le braccia.
Le scostò ammaliato una ciocca dal viso, seguendo l’ovale con la punta delle dita. La sentì fremere a quell’innocente carezza fino al mento, le sollevò il viso e si perse in quegli occhi neri come la notte. Era da tanto che non aveva una donna. I clientes lo stavano aspettando. Sorrise, pensando che potevano aspettare ancora un poco. La baciò con molta dolcezza.
La schiava rimase senza fiato a quel bacio dolcissimo e tenero. Non sapeva cosa fare. Non sapeva più pensare. Il cuore iniziò una cavalcata furiosa in petto, l’aria divenne spessa e carica del profumo maschio e speziato di lui. Si arrese all’abbraccio, al bacio, intuendo che poteva esserci molto di più. E molto più inebriante.
“Rhea, hai mai avuto uomini?”
“No.”
Marco la guardò stupito realizzando che la ragazza era davvero sincera. La baciò ancora, con più passione, invitandola ad aprire la bocca. Lei socchiuse le labbra. E lui si perse nei meandri di quella bocca inesperta, inebriato dal suo sapore, dalla sua ingenua spontaneità.
Si staccarono senza fiato, boccheggianti, stupiti, sconvolti.
Contro le natiche la fanciulla poté sentire chiaramente l’urgenza famelica del suo padrone e tremò di paura. Non paura dell’ignoto, ma paura di non saper resistere a quella malia.
Marco colse il lampo negli occhi scuri della donna e la strinse a sé, timoroso che volesse scappare via. Non voleva lasciarla andare. Era sua. L’avrebbe fatta sua, ne era certo. Qualcosa di duro si conficcò tra le sue costole, facendolo sussultare. Fu allora che vide la sottile catenina in argento, di una fattura finissima degna della migliore gens patrizia.
Prendendola e sfilandola dallo scollo della tunica, guardò l’oggetto sentendo montare l’ira. Dove l’aveva presa quella fuggiasca? Che l’avesse rubata era certo come l’oro. A chi, era da scoprirlo. “E questa cos’è?”
“La mia bulla.”
Irato per la sfacciata menzogna che la voce tremante tradiva, gliela strappò dal collo.
“No! Ti prego lasciamela!”
Tenendo il fine oggetto lontano dalla portata della schiava che ora si agitava per recuperare il prezioso, con un gesto repentino gettò a terra la giovane, sovrastandola. Quando questa, per nulla intimorita, si lanciò nuovamente verso l’oggetto la colpì con un manrovescio che la fece crollare a terra ancora una volta. “Adesso basta!!” Urlò inferocito.
A passo rapido uscì dallo studium, prendendo dalla cinta l’anello con le chiavi della domus. Arrivato all’arca, con la schiava alle calcagna che lo implorava di renderle la bulla, aprì la cassaforte di casa e vi gettò dentro il prezioso pendente, tra i calici in peltro, le ciotole in argento ed i gioielli di famiglia. I gioielli di Laetitia.
“Ti prego, padrone, ti scongiuro! Non privarmene, farò quello che vuoi!”
Lui la scostò bruscamente e richiuse l’armadio fasciato di ferro, girandosi a guardare la ragazza con occhi di fuoco. La prese per le spalle e le diede un bacio duro, punitivo, che si addolcì appena quando lei cedette smettendo di divincolarsi ed accettando l’invasione della sua lingua. Divenne appassionato quando, inebriata dalle violente emozioni scatenate, la fanciulla gli si strinse addosso con un gemito di resa incondizionata. Solo allora sollevò la testa, scostando quel corpo morbido e tentatore e lasciando la presa. Aveva dei doveri come domine e li aveva trascurati abbastanza per quella piccola intrigante.
“Piccola perla di rara bellezza ed innocenza, testarda come un mulo ed insistente come una mosca, ecco cosa sei. Stanotte sarai mia.”
Lei lo guardò con occhi sgranati, colmi di inconsapevole desiderio e timore. “Ma… io… la bulla…”
Con una smorfia lui si allontanò di un passo. “Non hai forse detto che avresti fatto tutto quello che volevo per riaverla?”
In quel momento assistette ad un cambiamento repentino nella ragazza che avanzò verso di lui di un passo, con aria greve. Lo schiaffo di certo non se lo aspettava e la guancia gli bruciò per parecchio tempo in seguito. “Non sono una puttana.”
Guardando le spalle dritte di quella sfrontata che osava allontanarsi altera ed arrogante come mai, non poté far altro che sorridere divertito da tanto ardore. “Sei la mia schiava, Rhea. Stanotte ti voglio nel mio letto e guai a te se non ti trovo lì dopo cena.”
Lei voltò appena la testa a guardarlo con sufficienza da sopra la spalla. “Sennò? Mi fai frustare?”
Marco rimase interdetto da tanta impudenza. Sorrise cattivo. “Dimmi, preferisci perdere la tua verginità con dolcezza e passione, scoprendo cosa sia il desiderio ed il piacere nell’intimità della mia camera o vuoi essere usata e gettata, nel cubicolo che dividi con le altre schiave? La verginità la perderai comunque questa notte, Rhea. Decidi tu come vuoi che accada.”
Vedendo le gote violacee della ragazza sorrise avvicinandosi a lei e le sussurrò gelido ad un orecchio: “Sono o non sono un padrone generoso? Lascio alla mia schiava potere di scelta.”
Mentre se ne andava trionfante a svolgere i suoi doveri di patronus, la fanciulla poté vedere le sue spalle dritte e possenti scosse da una fremente risata. La risata del vincitore. Stringendo gli occhi con odio e digrignando i denti, decise che sì, lei avrebbe deciso. Anzi, aveva già deciso.
Tornò lentamente nell’area degli schiavi, una volta entrata chiamò la schiava più anziana, Gerbenat.
“Cosa succede piccola?”
“Vorrei andare al mercato e poi alle terme. Mi accompagneresti? Avrei bisogno del tuo consiglio.”
“Certo, vengo volentieri, tanto più che i miei doveri li ho già finiti. Con l’età non si dorme più molto.”
“Capisco. Possiamo fare acquisti per noi? Il padrone ci concede qualcosa?”
“Certo, Fulvio gestisce un fondo cassa per le spese di questa casa, compresi i fabbisogni degli schiavi.”
“Ottimo, avrò bisogno di una veste adatta e di olii essenziali … intriganti.”
La vecchia schiava guardò la bambina, tale era per lei la piccola Rhea, che si infilava una palla. “A cosa ti servono?”
La ragazza si aprì nel più perfido e letale dei sorrisi. “Domine Marco ha detto che mi vuole nel suo letto stanotte. Non potrò mica andarci sporca e con questa misera veste, non credi?”
Continua....

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