RACCONTO: The Fate of Eberron - 13
Arrivarono ai docks e lasciarono che la nave
proseguisse da sola verso il mare aperto. Prima o poi l’energia dell’elementale
lì imprigionato si sarebbe liberata, distruggendo qualunque prova a loro
carico. O, almeno, quella piccola parte delle prove.
Silenziosi si aggirarono per i vicoli, dall’altro lato
del porto si ergeva Punta Spada, dove era stanziato un distaccamento
dell’esercito nazionale del Breeland e una parte degli uffici della guardia
cittadina.
Arrivarono a un magazzino più piccolo, al limitare
della parte vecchia del molo commerciale fervente di attività e di
pettegolezzi: ne raccolsero parecchi, lungo la strada, relativi alle voci che
giungevano lì dal terzo livello di Sharn, su un attacco al Palazzo Cannith e
sulla rocambolesca quanto spettacolare fuga dei ricercati che avevano causato
l’esplosione della torre Cannith la sera prima. Pareva anche che il generale di
Cyre, quella Anat Kun tanto famosa per la sua ferocia, fosse morta anche se non
ne avevano trovato il corpo.
Indifferenti, un umano, un elfo e un forgiato si
mescolarono alla folla, si inoltrarono nelle viuzze del porto commerciale
arrivando all’area vecchia dei docks: davanti al mare vi erano tutti i nuovi
magazzini, subito dietro vi era l’area vecchia, fatta da magazzini abbandonati
e fatiscenti. Il magazzino dove si inoltrarono, quando Sylvion fu certo che
nessuno li potesse vedere, aveva l’aria di essere stato abbandonato da troppo
poco tempo affinchè diventasse la casa di qualche senzatetto o la tana di
perdigiorno e tagliagole di varia natura.
Come furono all’interno, senza troppi complimenti,
sprangarono il portone dopodiché Sylvion si avviò a un mucchio di casse
fatiscenti, vi girò intorno e pose la mano sinistra contro una di esse. Il suo
bracciale, con la gemma di interdizione Kundarak, brillò di una sinistra luce
violacea, entrando in risonanza con le casse che si spostarono lateralmente
lasciando aperta una botola con delle scale che scendevano nel sottosuolo.
«Dopo di voi, signori. Ci dovrebbe essere un globo
luminoso in basso. Sulla sinistra.»
Si sentirono rumori di cocci dopo che Fender fu sceso
e subito dopo la voce metallica del forgiato tenne a precisare con tono
asciutto: «Era a destra.»
Lorian, alle spalle del forgiato scosse la testa.
Raccolse il potere della magia, lo lasciò fluire poco alla volta dalla mano
appoggiata alla parete e dal soffitto scese una goccia di roccia che andò
schiarendosi per poi accendersi e soffondere l’interno scarno locale di una
calda luce giallastra. «Ecco fatto. »
«Io non ne avevo bisogno.»
«Tu no, amico mio, ma noi sì. Noi non ci vediamo al
buio.»
Sylvion scese e si rammaricò al vedere i cocci del suo
globo magico.
«Mi era costato una fortuna!» Si lamentò il changeling
e Lorian fece un vago gesto con la mano, osservando con fare distratto
l’ambiente mentre replicava a sua volta.
«Tanto tra poco tutto questo non ci servirà più.»
«D’accordo, però adesso serviva.»
«Ho sopperito, di che ti lamenti?»
«Ma vedi di andare a sopperire un vaffanculo, ok?»
Lorian sorrise, crollando a sedere sul letto addossato
a una parete, dall’altra parte della stanza sotterranea c’era un tavolo con tre
sedie, accanto al letto vi era una cassapanca e ai piedi una rastrelliera colma
di armi di ogni tipo. «Ti sei sistemato benino, qui.»
«Non mi lamento.»
«Manca la latrina.»
«Dietro quella tenda, grigia.»
«Ah. Credo che approfitterò della tua ospitalità… e
del tuo letto, Sylvion. Sono… distrutto.»
Aveva parlato facendo l’atto di stendersi e l’ultima
parola esalò dalle labbra di Lorian che già era semiaddormentato. Impiegò pochi
attimi per crollare completamente, sprofondando in un sonno ai limiti del
comatoso. Sylvion si grattò la testa, impacciato e Fender, fraintendendo
l’impaccio del compagno d’avventura, intervenne: «È sempre così quando usa la
magia così tanto. Quel marchio gli dà molto potere, ma lo consuma altrettanto a
fondo. Se non sta attento rischia di non arrivare ai livelli cui mira.»
«Diciamo che non è un problema mio?»
«Potrebbe diventarlo.»
Sylvion mise in mostra il tatuaggio che gli copriva la
spalla e parte del collo, tornando alla sua forma originaria. «Questo non può
fare nulla, lo sai.»
Fender non replicò e il changeling, tornando a coprire
il marchio aberrante del drago che aveva tatuato sulla spalla e sul collo, andò
a sedersi sulla poltrona. «Abbiamo bisogno di riposare tutti.» Guardò storto il
forgiato e stirò le labbra, in un bieco sorriso. «Beh, quasi tutti. Non
volermene, ma credo che dormirò un po’ anche io. Anat sa dove trovarci e se non
lo sa saprà fiutare il nostro odore. Quando arriverà qui avremo modo di capire
cosa fare.»
Fender annuì, lasciando che anche Sylvion si
addormentasse nella poltrona sistemata nell’angolo del muro tra il tavolo e le
scale che scendevano lì. Sopra l’apertura le casse erano tornate al loro posto
originario a coprire la botola da cui erano scesi non appena il changeling
aveva tolto i piedi dalla scala, segno evidente che la magia Kundarak era stata
asservita al solo e unico proprietario di quel luogo, ossia il changeling.
Chissà se si era fatto passare per il mercante di Q’Barra o per l’altro tizio,
quello dei Principati. Fece mentalmente spallucce, aprì il vano sul braccio che
conteneva i vestiti e le lame di Anat e li osservò. Se avesse potuto provare
sentimenti umani, probabilmente ora avrebbe ammesso a sé stesso di essere
preoccupato per lei, ma essendo lui un forgiato e quindi una macchina, non
poteva provare veri e propri sentimenti. O, almeno, quella fu la menzogna che
si raccontò mentre richiudeva lo sportello sul braccio e si disponeva
all’attesa.
L’elfo controllò l’ennesimo rapporto delle sue Lame di
Tenebra e fece una smorfia. Tutto era iniziato e ora lui avrebbe dovuto fare la
sua parte, certo l’incarcerazione di Jekis poteva essere un problema.
O forse no… dopotutto, doveva tener conto anche di
Marcus e degli altri quattro. Sorrise, quando uno dei suoi uomini lo avvisò che
Marcus chiedeva di essere ricevuto.
«Fallo entrare.» Ordinò, secco.
L’uomo dal cappello piumato entrò nel sontuoso studio,
ricordando perfettamente ogni dettaglio, l’attenzione attirata dai fogli che
l’elfo, vestito di una costosa camicia di seta nera aperta sul davanti, stava
impilando con fare annoiato. «Allora?»
«Allora, niente.» Replicò freddo Ellenshan. «Allora,
tu mi dovresti aggiornare, no?»
«Ehm… sì, però, ecco… c’è stato un problema.»
«Nulla cui non sia stato possibile porre rimedio,
spero.»
«Più o meno. C’è stato un problema a Palazzo Cannith…
le guardie si sono presentate là per arrestare quei quattro.»
«Dimmi qualcosa che non so.»
«La morfica è in condizioni disperate, riparata in una
casa sicura. Degli altri tre ho perso le tracce.»
I movimenti melliflui dell’elfo rallentarono fin quasi
a fermarsi. Puntò gli occhi d’acciaio in quelli neri dell’uomo davanti a lui e
per la prima volta in vita sua Marcus fu percorso da un brivido gelido.
«Che cosa… hai detto?»
Il sibilo gelido fece sentire all’uomo con il cappello
piumato la parvenza di uno strato di brina sulla pelle, quel soffio carico di
furia omicida che sapeva appena di menta, occhi negli occhi con l’elfo che ora
– senza capire come avesse potuto farlo – lo teneva per il bavero del corto
giacchino colorato, scuotendolo come un fazzoletto al ritmo di un addio. «Non
importa… saprò cosa è successo… e sarai tu a farmelo vedere.»
Gli occhi grigi divennero brillanti come stelle,
incatenando quelli scuri dell’uomo che, man mano che sentiva il potere
sprigionarsi e vedeva la vera essenza dell’elfo, si spalancarono di orrore.
«Troppo tardi, Marcus… non ti permetterò di allertare
nessuno.»
La lama si inserì abile sotto la gola, andando a
ledere il cervello dopo la carotide. L’uomo tremò vistosamente, scartò con
forza, ma l’elfo era più forte e straordinariamente preparato a ogni sua mossa:
troppo abile per parare tutti i colpi che con le gambe e le braccia Marcus
aveva tentato di sferrare, quasi che le vedesse in anticipo, come se gli avesse
letto nella mente.
Era quello il temibile motivo per cui le Lame di
Tenebra lo avevano accettato come capo, cinque anni prima, quando si era
insediato a Sharn, divenendo in breve tempo uno dei principali boss malavitosi
locali, un boss che anche i Thuranni e i Deneith temevano.
«Sharmaxdrar, fai ripulire questo schifo. Io vado a
cambiarmi.»
La voce fredda e lo sguardo tagliente di Ellenshan
promettevano la stessa fine dell’uomo a terra. Un uomo che stava lentamente
cambiando, sotto quegli ingombrati e sin troppo sgargianti vestiti. Non si
sognò nemmeno di contraddire il capo, con un cenno della testa prese al volo il
pugnale che aveva sgozzato come un maiale il changeling ai suoi piedi e iniziò
a pulire da quello.
Ellenshan era temibile e lui sapeva fin troppo bene
quanto potesse esserlo: il fatto che avesse ucciso senza torturare quel
changeling che si era presentato sotto le mentite spoglie del Trovatutto era un
raro esempio della sua magnanimità. Sharmaxdrar sospirò, rinfoderando il
pugnale pulito sulla scrivania e tirando il cordone che convocava la servitù.
C’era un mucchio di sangue da ripulire.
Sylvion si svegliò alcune ore dopo, controllò da una
feritoia che con un gioco di specchi comunicava con l’esterno e comprese di essere
giunti a metà pomeriggio.
Aprì in silenzio un baule accanto alla cassapanca,
lanciando un’occhiata in tralice all’artefice che russava sonoramente.
«Per quanto dormirà, ancora?»
«Sono passate quasi quattro ore, penso ancora un
paio.»
«Bene. Esco a fare due passi e a sentire le novità.
Hai bisogno di qualcosa?»
«Olio e pezze da rattoppo. Sto sgocciolando da un
giunto.»
«Vedo cosa trovo. In caso fatti rappezzare da lui,
quando si sveglia.»
«Divertente.»
«Sento anche cosa si sa di Anat.»
«Non credo sia viva, con quel botto dubito che anche
lei possa essere sopravvissuta.»
«Non ci giurerei. Se non fosse un lupo, giurerei che è
un gatto. Quante altre volte l’abbiamo data per spacciata?»
Fender rise, facendo rimbalzare all’interno del corpo
come in una cassa armonica il suono divertito. «Hai ragione.»
Una volta uscito Sylvion assunse le sembianze di uno
dei marinai, tolse il pastrano lasciandolo dentro al magazzino e vestito come
uno dei portuali si aggirò indisturbato per quell’area, raccogliendo voci e pettegolezzi,
prendendo con nonchalance – quando non era visto – pane e frutta dalle varie
bancarelle dei commercianti, non disdegnando di svuotare con un taglio netto e
indolore i loro borselli. Fare le cose alla vecchia maniera era sempre un modo,
per lui, di staccare, di rilassarsi e di non pensare ai problemi più pressanti.
Insomma, una sorta di hobby che gli fruttava anche, cena e soldi da spendere a
puttane.
A tal proposito il suo sguardo si fissò sull’ingresso
del più famoso bordello del porto, sorrise bieco, fece tintinnare le monete nel
suo borsello – rinforzato con un incantesimo di interdizione contro le
manomissioni di qualunque tipo – e si avviò baldanzoso verso la porta dipinta
di un pacchiano rosso e oro. Era da tanto che aveva voglia di sfogarsi con una
bella donna. Se ci fosse stata un’elfa sarebbe stato anche meglio, ma non aveva
voglia di attraversare quasi tutta Sharn per tornare al Focolare di Bolderyn e
andare nel più lussuoso bordello della città.
Mi
accontenterò… pensò,
varcando la soglia, aperta per far spazio alle monete d’oro che quella specie
di pezzente sventolò sotto al naso del buttafuori. L’oro, si sa, è sempre il
miglior lasciapassare per qualunque posto.
Anat si svegliò sentendo la testa pesante come un
macigno. Sopra di lei campeggiava uno strano baldacchino e sul braccio destro
sentì le dolorose stille di un ago che tirava un filo ricucendo una ferita.
Volse la testa, ancora intontita e l’halfling non la degnò di uno sguardo
nemmeno quando grugnì la sua sofferenza. Dietro il dottore, un appartenente al
casato Jorasko visto lo stemma sul camice, stava una donna composta, in piedi
accanto alla porta con le mani intrecciate davanti, l’espressione compunta.
«Dottore, si è svegliata.»
«Lo so, ma il generale sa cosa deve fare.»
La risposta frettolosa dell’halfling fece quasi
sorridere Anat. Sì, lei sapeva cosa fare: doveva stare immobile fintanto che il
medico non avesse finito di ricucire la ferita, tanto più che comunque si
sentiva completamente senza forze e incapace di emettere anche un solo suono
per indicare la sofferenza che le stava infliggendo.
Il dottore finì, la guardò severo e infine parlò: «Se
ti dessi delle pillole per stare meglio le prenderesti?»
Anat cercò di ingoiare l’arsura che aveva in bocca dal
momento del suo risveglio. Non trovò voce e si limitò ad annuire.
«Bene, perché sono stufo di fare raccomandazioni a
vuoto a voi.»
«Noi?»
La domanda uscì come un rantolo e il medico si lasciò
sfuggire un ghigno divertito. Alla fine, però, decise di spiegarsi, forse
impaurito dall’eventualità che il generale di Cyre andasse a prenderlo una
volta guarita. «Voi. Ieri sera ho ricucito il changeling. Non credere che non
sappia chi siete, Marcus paga bene per i suoi amici.»
La testa ancora preda della confusione, Anat lo guardò
senza capire, mentre la donna si avvicinava al letto con un bicchiere di
cristallo e una brocca d’acqua. Alla vista dell’acqua Anat riprese a salivare.
«Acqua…» invocò arida.
«Lasci, dottore, le spiegherò io.»
«D’accordo, signora Tenner. Spero di non rivederti,
non posso sempre uscire dall’ospedale e men che meno, ora, rimettervi in forma
lì. Per quanto bene possa pagare Marcus, non ho alcuna intenzione ne di finire
in carcere, né di veder la mia testa spiccare il salto del Jiin.»
Anat ascoltò la filippica del dottore con un orecchio
solo, intenta a bere avidamente l’acqua che la signora Tenner le stava
offrendo, dopo averle sollevato la testa.
«Bene, signora Tenner, la saluto.»
«Salute a voi, dottor Juasheim.»
Juasheim.
Un nome che Anat conosceva bene, aveva percorso il
fronte sud-orientale del Cyre in lungo e in largo rimettendo in piedi i soldati
di Breeland e di tutte le altre nazioni. Ma non quelli del Cyre. Ecco dove si
era rifugiato quel bastardo…
Non aveva tempo, ora di sistemarlo a dovere, ma gliel’avrebbe
fatta pagare… sorrise di sghimbescio, pregustando il piacere di ammazzarlo,
affondando i canini in quel suo collo molliccio. «Signora… grazie di tutto.»
«Mi ringrazierete quando potrete farlo, ragazza.»
La freddezza nella voce della donna, in un altro
momento, avrebbe allertato i sensi di Anat. Ma, fiduciosa e sfinita, la morfica
ripiombò in un sonno profondo e la donna rimase a lungo a osservare la ferita
nel suo ricco letto, prima di risolversi ad andarsene da quella stanza. Come
uscì chiuse a chiave la porta e si rivolse alla sua domestica: «Suzette,
portami uno dei vestiti di mia figlia Carola. Dovrebbero andar bene alla nostra
ospite. E poi mandami Bianca, avrò bisogno che le sistemi i capelli come si
conviene.»
«Sì, signora.»
Quello che avvenne ore dopo nella stanza chiusa a
chiave dove era alloggiata la famosa ospite, Suzette non lo seppe mai. Ma dagli
strepiti e le bestemmie degne di uno scaricatore di porto, fu felice di non
conoscere la “dama” capace di un turpiloquio simile.
Due ore più tardi Sylvion rientrò carico di cibo, di
soldi e con un ghigno soddisfatto in volto. Non appena varcò il portone del
magazzino iniziò a mutare forma, tornando all’aspetto naturale, anche perché
non aveva alcuna voglia di dare spiegazioni vista la notevole soddisfazione che
quelle tre prostitute gli avevano fornito in un così breve lasso di tempo.
Scese le scale che portavano al piano seminterrato che
Lorian si era svegliato da poco e si stava pulendo il viso con l’acqua
contenuta in una brocca sistemata accanto a un catino e uno specchio.
«Ho portato cibo e pettegolezzi. Quali volete per
primi?» Chiese, lanciando poi un pacchetto di mastice e pezze a Fender, seguito
da una latta di olio pneumatico.
Lorian lo guardò, scuotendo il capo. «Quella roba non
serviva, potevo fare da me.»
«Tieniti in forma per stasera. Fra un paio d’ore
dovremo muoverci.»
«Per dove?»
«Non lo so, ma in un caso o nell’altro, dovremo far
qualcosa. Mica possiamo restare nascosti qui dentro all’infinito.»
«Anat?» Chiese Fender, atono.
«Le voci la danno per morta.»
Lorian si rabbuiò. «Che ore sono?»
«Manca un’ora al tramonto.» Rispose piatto il
changeling.
«Non sta tardando troppo?»
«Avrà trovato un posto dove rintanarsi e riposare.
Anche lei come noi non ha dormito un granché e quello che è successo non penso
l’abbia caricata di energie.»
Lorian annuì poco convinto. «Allora dobbiamo solo
decidere se andare a liberare Jekis, aspettare Anat qui o andare a cercarla.»
Fender si sbilanciò: «Se tanto mi da tanto,
conoscendola si muoverà in modo da farsi catturare e portare da Jekis. Se
quella era la vostra idea iniziale è facile che intenda portarla avanti. Se è
sopravvissuta.»
Sylvion annuì, iniziando a sbucciare un frutto che poi
si cacciò in bocca pezzo a pezzo, bofonchiando a sua volta: «In effetti non ci
avevo pensato, ma potrebbe davvero essere così. Dopo tutto... cazzo, quella
scema si è già mossa.»
«Che vuoi dire?» Chiese Lorian, sedendosi a sua volta
al tavolo e prendendo un frutto che addentò direttamente.
«Ho sentito parlare di una cameriera che ha preso a
calci nelle palle una delle guardie e che è stata arrestata.» Sylvion lasciò la
frase in evidente sospensione per attirare meglio l’attenzione. «Una giovane e
piccola furia rossa da Pia.»
Il silenzio calò greve nella stanza. Poi con una
sghignazzata i tre mandarono amorevoli maledizioni alla volta della morfica.
Risvegliatasi di nuovo nella stanza da letto
sconosciuta, si lasciò aiutare dalla signora Tenner a sedere sul letto e
mangiare qualcosa. La testa rimbombava in maniera incredibile e lampi di luce
accecante si accendevano dietro gli occhi ogni qualvolta un suono più acuto
degli altri le trapanava il cervello.
«Per Khiber, piantatela di far casino.» Ma la protesta
uscì debole e gli inservienti continuarono a portare dentro e fuori dalla
stanzetta attigua dei secchi d’acqua.
«Generale, ho predisposto un bagno per voi, poi Bianca
si prenderà cura della vostra… chioma.»
«Che hanno i miei capelli che non va?»
«A parte la sporcizia immonda che li incrosta? Sono
fin troppo riconoscibili. Dobbiamo tingerli.»
«Nemmeno morta!!»
Ma tutte le proteste di Anat, gli strepiti, le urla e
le bestemmie non servirono a nulla contro i nerboruti servitori che, presala
per le braccia, la sollevarono di peso per poi calarla nella vasca piena di
acqua calda profumata di lavanda e impassibili la tennero sott’acqua per tutto
il tempo che servì alla signora e a quella fantomatica Bianca per lavare il
corpo celato dalla camicia da notte spessa che qualcuno le aveva fatto
indossare e i lunghi capelli fiammeggianti.
Purtroppo per Anat, la signora Tenner, adeguatamente
istruita dal Trovatutto aveva saputo aprofittarsi della debolezza fisica e
dell’intontimento della morfica per mettere in atto quanto pattuito. E, con
sommo scorno di Anat, Bianca iniziò a recidere una buona lunghezza dei suoi
capelli per poi pettinarli con piglio militaresco a districare i nodi,
ignorando bellamente i suoi rimbrotti, le sue bestemmie per uno strattone più
forte degli altri, le sue lamentele. Per tutto il tempo tre uomini la tennero
inchiodata alla vasca, fino a quando la morfica non si rassegnò – complice il
violento mal di testa – e ubbidiente si lasciò conciare come una dama per le
feste.
Solo all’uso della biacca per schiarire i capelli si
oppose fermamente, optando infine per una tintura scura che sarebbe potuta
andare via con un semplice risciacquo. Quando si osservò allo specchio,
conciata da damina per bene, Anat per poco non scoppiò a ridere fragorosamente
e poi, silenziosamente, elevò una preghiera di sentito ringraziamento alle più
svariate divinità che le passarono per la testa quando si rese conto che
nessuno degli altri l’avrebbe vista conciata a quella maniera. Si osservò
critica e stirò le labbra. Beh, se anche li avesse incrociati, probabilmente
non l’avrebbero riconosciuta… sempre che fosse stata attenta a non parlare.
«Avrò bisogno di un grembiule, devo scendere al
secondo livello.» Disse asciutta e con tono pratico, mentre tirava una ciocca
attorcigliata in un elegante boccolo che scendeva sul lato destro del viso. Si
rese conto di una lieve stonatura sulla fronte e prese la polvere di biacca,
spolverandosi il viso. L’imperfezione scomparve. «Così va meglio.»
La proprietaria della casa la guardò severa, quindi la
congedò freddamente: «Ho fatto quello per cui sono stata pagata, ora vattene.»
«Ti farò riavere il tuo vestito… se mi sarà
possibile.»
«Per quello che m’importa, puoi anche dargli fuoco. E
se trovi quella sgualdrina di mia figlia, fai altrettanto, se proprio vuoi
sdebitarti.»
Anat si limitò a sollevare un sopracciglio, ma non
indagò oltre. Non erano affari suoi. Tenne il grembiule in mano e studiò
attenta le movenze aggraziate della signora, mentre questa se ne andava
lasciandola alle serve che l’avevano vestita e che l’accompagnarono all’uscita
posteriore. Chiusero la porta in fretta, senza nemmeno lasciarle il tempo di
ringraziare o, visto il comportamento scostante, di mandarle a quel paese.
Guardò critica la casa comprendendo molte cose, fece spallucce e si inoltrò per
le vie cittadine, occhi bassi e portamento elegante. Quando infine arrivò al
teletrasporto aveva mal di schiena da quanto era stata rigida nella postura cui
non era abituata.
La fila per usare il teletrasporto non era molto lunga
e nel frattempo cercò di pensare a un modo per scroccare un passaggio. Di
prendere una gondola del servizio pubblico di Sharn non se ne parlava. Mentre
era assorta in questi pensieri, si ritrovò davanti l’incaricato.
«Signora?»
Lo guardò straniata. Quello, non riconoscendo in lei
nessuno di importante, tese la mano, aggiungendo: «La tariffa, mia signora.
Venti argentini.»
Lei si guardò intorno, mimando un finto imbarazzo. Era
giunto il momento di entrare in scena. Fece cenno all’uomo di avvicinarsi,
sperando che il profumo che le stava ubriacando i sensi ipersviluppati servisse
davvero a qualcosa. Come quello le si avvicinò gli sussurrò qualcosa
all’orecchio, posando delicatamente la mano coperta dal grembiule ripiegato sul
suo stomaco, infilando le dita all’interno della giacca, tra un bottone e
l’altro.
L’uomo sbiancò all’improvviso e guardò quel viso dolce
aperto in un sorriso ammaliatore mai visto. Guardò la mano ancora contro di
lui.
Tentò un sorriso per non allertare il compagno e…
tolse il nastro, guardando preoccupato la fila che andava aumentando e che, dannate
non c’erano mai quando servivano!, era desolatamente vuota di guardie che
scroccavano un trasporto al focolare per far baldoria.
Esattamente dove la signora aveva chiesto di andare.
«Prego, mia signora… indichi al mio collega la sua
destinazione, ci arriverà in un attimo.»
La voce tremante fece sorridere Anat in un modo ancora
più sinistramente dolce. «Ti ringrazio, ragazzo.»
Tolse la mano, scivolando elegante oltre, dando la sua
destinazione e lasciando l’uomo a guardia dell’accesso al portale di trasporto
scosso e sudato, tremante di terrore. Si rese conto solo in quel momento di
essere sul punto di farsela addosso e si allontanò senza una spiegazione,
subito sostituito da un collega che lo guardava preoccupato. «Ehi, Tim!! Tutto
bene?!»
Arrivato nello spogliatoio dove si cambiava l’uomo
finalmente crollò, le ginocchia non lo ressero oltre e si accasciò. Veloce e
con dita malferme si aprì la giacca d’ordinanza, per osservare le strie rosse
sulla pelle dello stomaco e del basso ventre, oltre la stoffa lacerata della
camicia, strie brevi, della lunghezza di lunghe dita femminili… munite di
artigli taglienti come rasoi.
Fu solo dopo aver slacciato le brache e aver
controllato che nulla fosse stato reciso come promesso da quelle dita che si
insinuavano sotto la cintura che finalmente si lasciò andare. E scoppiò a
piangere come il bimbo che lo aspettava a casa e al quale aveva temuto di non
dare più un fratellino.
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