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RACCONTO: The Fate of Eberron - 13

VII – Evasione





Arrivarono ai docks e lasciarono che la nave proseguisse da sola verso il mare aperto. Prima o poi l’energia dell’elementale lì imprigionato si sarebbe liberata, distruggendo qualunque prova a loro carico. O, almeno, quella piccola parte delle prove.
Silenziosi si aggirarono per i vicoli, dall’altro lato del porto si ergeva Punta Spada, dove era stanziato un distaccamento dell’esercito nazionale del Breeland e una parte degli uffici della guardia cittadina.
Arrivarono a un magazzino più piccolo, al limitare della parte vecchia del molo commerciale fervente di attività e di pettegolezzi: ne raccolsero parecchi, lungo la strada, relativi alle voci che giungevano lì dal terzo livello di Sharn, su un attacco al Palazzo Cannith e sulla rocambolesca quanto spettacolare fuga dei ricercati che avevano causato l’esplosione della torre Cannith la sera prima. Pareva anche che il generale di Cyre, quella Anat Kun tanto famosa per la sua ferocia, fosse morta anche se non ne avevano trovato il corpo.
Indifferenti, un umano, un elfo e un forgiato si mescolarono alla folla, si inoltrarono nelle viuzze del porto commerciale arrivando all’area vecchia dei docks: davanti al mare vi erano tutti i nuovi magazzini, subito dietro vi era l’area vecchia, fatta da magazzini abbandonati e fatiscenti. Il magazzino dove si inoltrarono, quando Sylvion fu certo che nessuno li potesse vedere, aveva l’aria di essere stato abbandonato da troppo poco tempo affinchè diventasse la casa di qualche senzatetto o la tana di perdigiorno e tagliagole di varia natura.
Come furono all’interno, senza troppi complimenti, sprangarono il portone dopodiché Sylvion si avviò a un mucchio di casse fatiscenti, vi girò intorno e pose la mano sinistra contro una di esse. Il suo bracciale, con la gemma di interdizione Kundarak, brillò di una sinistra luce violacea, entrando in risonanza con le casse che si spostarono lateralmente lasciando aperta una botola con delle scale che scendevano nel sottosuolo.
«Dopo di voi, signori. Ci dovrebbe essere un globo luminoso in basso. Sulla sinistra.»
Si sentirono rumori di cocci dopo che Fender fu sceso e subito dopo la voce metallica del forgiato tenne a precisare con tono asciutto: «Era a destra.»
Lorian, alle spalle del forgiato scosse la testa. Raccolse il potere della magia, lo lasciò fluire poco alla volta dalla mano appoggiata alla parete e dal soffitto scese una goccia di roccia che andò schiarendosi per poi accendersi e soffondere l’interno scarno locale di una calda luce giallastra. «Ecco fatto. »
«Io non ne avevo bisogno.»
«Tu no, amico mio, ma noi sì. Noi non ci vediamo al buio.»
Sylvion scese e si rammaricò al vedere i cocci del suo globo magico.
«Mi era costato una fortuna!» Si lamentò il changeling e Lorian fece un vago gesto con la mano, osservando con fare distratto l’ambiente mentre replicava a sua volta.
«Tanto tra poco tutto questo non ci servirà più.»
«D’accordo, però adesso serviva.»
«Ho sopperito, di che ti lamenti?»
«Ma vedi di andare a sopperire un vaffanculo, ok?»
Lorian sorrise, crollando a sedere sul letto addossato a una parete, dall’altra parte della stanza sotterranea c’era un tavolo con tre sedie, accanto al letto vi era una cassapanca e ai piedi una rastrelliera colma di armi di ogni tipo. «Ti sei sistemato benino, qui.»
«Non mi lamento.»
«Manca la latrina.»
«Dietro quella tenda, grigia.»
«Ah. Credo che approfitterò della tua ospitalità… e del tuo letto, Sylvion. Sono… distrutto.»
Aveva parlato facendo l’atto di stendersi e l’ultima parola esalò dalle labbra di Lorian che già era semiaddormentato. Impiegò pochi attimi per crollare completamente, sprofondando in un sonno ai limiti del comatoso. Sylvion si grattò la testa, impacciato e Fender, fraintendendo l’impaccio del compagno d’avventura, intervenne: «È sempre così quando usa la magia così tanto. Quel marchio gli dà molto potere, ma lo consuma altrettanto a fondo. Se non sta attento rischia di non arrivare ai livelli cui mira.»
«Diciamo che non è un problema mio?»
«Potrebbe diventarlo.»
Sylvion mise in mostra il tatuaggio che gli copriva la spalla e parte del collo, tornando alla sua forma originaria. «Questo non può fare nulla, lo sai.»
Fender non replicò e il changeling, tornando a coprire il marchio aberrante del drago che aveva tatuato sulla spalla e sul collo, andò a sedersi sulla poltrona. «Abbiamo bisogno di riposare tutti.» Guardò storto il forgiato e stirò le labbra, in un bieco sorriso. «Beh, quasi tutti. Non volermene, ma credo che dormirò un po’ anche io. Anat sa dove trovarci e se non lo sa saprà fiutare il nostro odore. Quando arriverà qui avremo modo di capire cosa fare.»
Fender annuì, lasciando che anche Sylvion si addormentasse nella poltrona sistemata nell’angolo del muro tra il tavolo e le scale che scendevano lì. Sopra l’apertura le casse erano tornate al loro posto originario a coprire la botola da cui erano scesi non appena il changeling aveva tolto i piedi dalla scala, segno evidente che la magia Kundarak era stata asservita al solo e unico proprietario di quel luogo, ossia il changeling. Chissà se si era fatto passare per il mercante di Q’Barra o per l’altro tizio, quello dei Principati. Fece mentalmente spallucce, aprì il vano sul braccio che conteneva i vestiti e le lame di Anat e li osservò. Se avesse potuto provare sentimenti umani, probabilmente ora avrebbe ammesso a sé stesso di essere preoccupato per lei, ma essendo lui un forgiato e quindi una macchina, non poteva provare veri e propri sentimenti. O, almeno, quella fu la menzogna che si raccontò mentre richiudeva lo sportello sul braccio e si disponeva all’attesa.

L’elfo controllò l’ennesimo rapporto delle sue Lame di Tenebra e fece una smorfia. Tutto era iniziato e ora lui avrebbe dovuto fare la sua parte, certo l’incarcerazione di Jekis poteva essere un problema.
O forse no… dopotutto, doveva tener conto anche di Marcus e degli altri quattro. Sorrise, quando uno dei suoi uomini lo avvisò che Marcus chiedeva di essere ricevuto.
«Fallo entrare.» Ordinò, secco.
L’uomo dal cappello piumato entrò nel sontuoso studio, ricordando perfettamente ogni dettaglio, l’attenzione attirata dai fogli che l’elfo, vestito di una costosa camicia di seta nera aperta sul davanti, stava impilando con fare annoiato. «Allora?»
«Allora, niente.» Replicò freddo Ellenshan. «Allora, tu mi dovresti aggiornare, no?»
«Ehm… sì, però, ecco… c’è stato un problema.»
«Nulla cui non sia stato possibile porre rimedio, spero.»
«Più o meno. C’è stato un problema a Palazzo Cannith… le guardie si sono presentate là per arrestare quei quattro.»
«Dimmi qualcosa che non so.»
«La morfica è in condizioni disperate, riparata in una casa sicura. Degli altri tre ho perso le tracce.»
I movimenti melliflui dell’elfo rallentarono fin quasi a fermarsi. Puntò gli occhi d’acciaio in quelli neri dell’uomo davanti a lui e per la prima volta in vita sua Marcus fu percorso da un brivido gelido.
«Che cosa… hai detto?»
Il sibilo gelido fece sentire all’uomo con il cappello piumato la parvenza di uno strato di brina sulla pelle, quel soffio carico di furia omicida che sapeva appena di menta, occhi negli occhi con l’elfo che ora – senza capire come avesse potuto farlo – lo teneva per il bavero del corto giacchino colorato, scuotendolo come un fazzoletto al ritmo di un addio. «Non importa… saprò cosa è successo… e sarai tu a farmelo vedere.»
Gli occhi grigi divennero brillanti come stelle, incatenando quelli scuri dell’uomo che, man mano che sentiva il potere sprigionarsi e vedeva la vera essenza dell’elfo, si spalancarono di orrore.
«Troppo tardi, Marcus… non ti permetterò di allertare nessuno.»
La lama si inserì abile sotto la gola, andando a ledere il cervello dopo la carotide. L’uomo tremò vistosamente, scartò con forza, ma l’elfo era più forte e straordinariamente preparato a ogni sua mossa: troppo abile per parare tutti i colpi che con le gambe e le braccia Marcus aveva tentato di sferrare, quasi che le vedesse in anticipo, come se gli avesse letto nella mente.
Era quello il temibile motivo per cui le Lame di Tenebra lo avevano accettato come capo, cinque anni prima, quando si era insediato a Sharn, divenendo in breve tempo uno dei principali boss malavitosi locali, un boss che anche i Thuranni e i Deneith temevano.
«Sharmaxdrar, fai ripulire questo schifo. Io vado a cambiarmi.»
La voce fredda e lo sguardo tagliente di Ellenshan promettevano la stessa fine dell’uomo a terra. Un uomo che stava lentamente cambiando, sotto quegli ingombrati e sin troppo sgargianti vestiti. Non si sognò nemmeno di contraddire il capo, con un cenno della testa prese al volo il pugnale che aveva sgozzato come un maiale il changeling ai suoi piedi e iniziò a pulire da quello.
Ellenshan era temibile e lui sapeva fin troppo bene quanto potesse esserlo: il fatto che avesse ucciso senza torturare quel changeling che si era presentato sotto le mentite spoglie del Trovatutto era un raro esempio della sua magnanimità. Sharmaxdrar sospirò, rinfoderando il pugnale pulito sulla scrivania e tirando il cordone che convocava la servitù. C’era un mucchio di sangue da ripulire.

Sylvion si svegliò alcune ore dopo, controllò da una feritoia che con un gioco di specchi comunicava con l’esterno e comprese di essere giunti a metà pomeriggio.
Aprì in silenzio un baule accanto alla cassapanca, lanciando un’occhiata in tralice all’artefice che russava sonoramente.
«Per quanto dormirà, ancora?»
«Sono passate quasi quattro ore, penso ancora un paio.»
«Bene. Esco a fare due passi e a sentire le novità. Hai bisogno di qualcosa?»
«Olio e pezze da rattoppo. Sto sgocciolando da un giunto.»
«Vedo cosa trovo. In caso fatti rappezzare da lui, quando si sveglia.»
«Divertente.»
«Sento anche cosa si sa di Anat.»
«Non credo sia viva, con quel botto dubito che anche lei possa essere sopravvissuta.»
«Non ci giurerei. Se non fosse un lupo, giurerei che è un gatto. Quante altre volte l’abbiamo data per spacciata?»
Fender rise, facendo rimbalzare all’interno del corpo come in una cassa armonica il suono divertito. «Hai ragione.»

Una volta uscito Sylvion assunse le sembianze di uno dei marinai, tolse il pastrano lasciandolo dentro al magazzino e vestito come uno dei portuali si aggirò indisturbato per quell’area, raccogliendo voci e pettegolezzi, prendendo con nonchalance – quando non era visto – pane e frutta dalle varie bancarelle dei commercianti, non disdegnando di svuotare con un taglio netto e indolore i loro borselli. Fare le cose alla vecchia maniera era sempre un modo, per lui, di staccare, di rilassarsi e di non pensare ai problemi più pressanti. Insomma, una sorta di hobby che gli fruttava anche, cena e soldi da spendere a puttane.
A tal proposito il suo sguardo si fissò sull’ingresso del più famoso bordello del porto, sorrise bieco, fece tintinnare le monete nel suo borsello – rinforzato con un incantesimo di interdizione contro le manomissioni di qualunque tipo – e si avviò baldanzoso verso la porta dipinta di un pacchiano rosso e oro. Era da tanto che aveva voglia di sfogarsi con una bella donna. Se ci fosse stata un’elfa sarebbe stato anche meglio, ma non aveva voglia di attraversare quasi tutta Sharn per tornare al Focolare di Bolderyn e andare nel più lussuoso bordello della città.
Mi accontenterò… pensò, varcando la soglia, aperta per far spazio alle monete d’oro che quella specie di pezzente sventolò sotto al naso del buttafuori. L’oro, si sa, è sempre il miglior lasciapassare per qualunque posto.
Anat si svegliò sentendo la testa pesante come un macigno. Sopra di lei campeggiava uno strano baldacchino e sul braccio destro sentì le dolorose stille di un ago che tirava un filo ricucendo una ferita. Volse la testa, ancora intontita e l’halfling non la degnò di uno sguardo nemmeno quando grugnì la sua sofferenza. Dietro il dottore, un appartenente al casato Jorasko visto lo stemma sul camice, stava una donna composta, in piedi accanto alla porta con le mani intrecciate davanti, l’espressione compunta.
«Dottore, si è svegliata.»
«Lo so, ma il generale sa cosa deve fare.»
La risposta frettolosa dell’halfling fece quasi sorridere Anat. Sì, lei sapeva cosa fare: doveva stare immobile fintanto che il medico non avesse finito di ricucire la ferita, tanto più che comunque si sentiva completamente senza forze e incapace di emettere anche un solo suono per indicare la sofferenza che le stava infliggendo.
Il dottore finì, la guardò severo e infine parlò: «Se ti dessi delle pillole per stare meglio le prenderesti?»
Anat cercò di ingoiare l’arsura che aveva in bocca dal momento del suo risveglio. Non trovò voce e si limitò ad annuire.
«Bene, perché sono stufo di fare raccomandazioni a vuoto a voi.»
«Noi?»
La domanda uscì come un rantolo e il medico si lasciò sfuggire un ghigno divertito. Alla fine, però, decise di spiegarsi, forse impaurito dall’eventualità che il generale di Cyre andasse a prenderlo una volta guarita. «Voi. Ieri sera ho ricucito il changeling. Non credere che non sappia chi siete, Marcus paga bene per i suoi amici.»
La testa ancora preda della confusione, Anat lo guardò senza capire, mentre la donna si avvicinava al letto con un bicchiere di cristallo e una brocca d’acqua. Alla vista dell’acqua Anat riprese a salivare. «Acqua…» invocò arida.
«Lasci, dottore, le spiegherò io.»
«D’accordo, signora Tenner. Spero di non rivederti, non posso sempre uscire dall’ospedale e men che meno, ora, rimettervi in forma lì. Per quanto bene possa pagare Marcus, non ho alcuna intenzione ne di finire in carcere, né di veder la mia testa spiccare il salto del Jiin.»
Anat ascoltò la filippica del dottore con un orecchio solo, intenta a bere avidamente l’acqua che la signora Tenner le stava offrendo, dopo averle sollevato la testa.
«Bene, signora Tenner, la saluto.»
«Salute a voi, dottor Juasheim.»
Juasheim.
Un nome che Anat conosceva bene, aveva percorso il fronte sud-orientale del Cyre in lungo e in largo rimettendo in piedi i soldati di Breeland e di tutte le altre nazioni. Ma non quelli del Cyre. Ecco dove si era rifugiato quel bastardo…
Non aveva tempo, ora di sistemarlo a dovere, ma gliel’avrebbe fatta pagare… sorrise di sghimbescio, pregustando il piacere di ammazzarlo, affondando i canini in quel suo collo molliccio. «Signora… grazie di tutto.»
«Mi ringrazierete quando potrete farlo, ragazza.»
La freddezza nella voce della donna, in un altro momento, avrebbe allertato i sensi di Anat. Ma, fiduciosa e sfinita, la morfica ripiombò in un sonno profondo e la donna rimase a lungo a osservare la ferita nel suo ricco letto, prima di risolversi ad andarsene da quella stanza. Come uscì chiuse a chiave la porta e si rivolse alla sua domestica: «Suzette, portami uno dei vestiti di mia figlia Carola. Dovrebbero andar bene alla nostra ospite. E poi mandami Bianca, avrò bisogno che le sistemi i capelli come si conviene.»
«Sì, signora.»
Quello che avvenne ore dopo nella stanza chiusa a chiave dove era alloggiata la famosa ospite, Suzette non lo seppe mai. Ma dagli strepiti e le bestemmie degne di uno scaricatore di porto, fu felice di non conoscere la “dama” capace di un turpiloquio simile.

Due ore più tardi Sylvion rientrò carico di cibo, di soldi e con un ghigno soddisfatto in volto. Non appena varcò il portone del magazzino iniziò a mutare forma, tornando all’aspetto naturale, anche perché non aveva alcuna voglia di dare spiegazioni vista la notevole soddisfazione che quelle tre prostitute gli avevano fornito in un così breve lasso di tempo.
Scese le scale che portavano al piano seminterrato che Lorian si era svegliato da poco e si stava pulendo il viso con l’acqua contenuta in una brocca sistemata accanto a un catino e uno specchio.
«Ho portato cibo e pettegolezzi. Quali volete per primi?» Chiese, lanciando poi un pacchetto di mastice e pezze a Fender, seguito da una latta di olio pneumatico.
Lorian lo guardò, scuotendo il capo. «Quella roba non serviva, potevo fare da me.»
«Tieniti in forma per stasera. Fra un paio d’ore dovremo muoverci.»
«Per dove?»
«Non lo so, ma in un caso o nell’altro, dovremo far qualcosa. Mica possiamo restare nascosti qui dentro all’infinito.»
«Anat?» Chiese Fender, atono.
«Le voci la danno per morta.»
Lorian si rabbuiò. «Che ore sono?»
«Manca un’ora al tramonto.» Rispose piatto il changeling.
«Non sta tardando troppo?»
«Avrà trovato un posto dove rintanarsi e riposare. Anche lei come noi non ha dormito un granché e quello che è successo non penso l’abbia caricata di energie.»
Lorian annuì poco convinto. «Allora dobbiamo solo decidere se andare a liberare Jekis, aspettare Anat qui o andare a cercarla.»
Fender si sbilanciò: «Se tanto mi da tanto, conoscendola si muoverà in modo da farsi catturare e portare da Jekis. Se quella era la vostra idea iniziale è facile che intenda portarla avanti. Se è sopravvissuta.»
Sylvion annuì, iniziando a sbucciare un frutto che poi si cacciò in bocca pezzo a pezzo, bofonchiando a sua volta: «In effetti non ci avevo pensato, ma potrebbe davvero essere così. Dopo tutto... cazzo, quella scema si è già mossa.»
«Che vuoi dire?» Chiese Lorian, sedendosi a sua volta al tavolo e prendendo un frutto che addentò direttamente.
«Ho sentito parlare di una cameriera che ha preso a calci nelle palle una delle guardie e che è stata arrestata.» Sylvion lasciò la frase in evidente sospensione per attirare meglio l’attenzione. «Una giovane e piccola furia rossa da Pia.»
Il silenzio calò greve nella stanza. Poi con una sghignazzata i tre mandarono amorevoli maledizioni alla volta della morfica.

Risvegliatasi di nuovo nella stanza da letto sconosciuta, si lasciò aiutare dalla signora Tenner a sedere sul letto e mangiare qualcosa. La testa rimbombava in maniera incredibile e lampi di luce accecante si accendevano dietro gli occhi ogni qualvolta un suono più acuto degli altri le trapanava il cervello.
«Per Khiber, piantatela di far casino.» Ma la protesta uscì debole e gli inservienti continuarono a portare dentro e fuori dalla stanzetta attigua dei secchi d’acqua.
«Generale, ho predisposto un bagno per voi, poi Bianca si prenderà cura della vostra… chioma.»
«Che hanno i miei capelli che non va?»
«A parte la sporcizia immonda che li incrosta? Sono fin troppo riconoscibili. Dobbiamo tingerli.»
«Nemmeno morta!!»
Ma tutte le proteste di Anat, gli strepiti, le urla e le bestemmie non servirono a nulla contro i nerboruti servitori che, presala per le braccia, la sollevarono di peso per poi calarla nella vasca piena di acqua calda profumata di lavanda e impassibili la tennero sott’acqua per tutto il tempo che servì alla signora e a quella fantomatica Bianca per lavare il corpo celato dalla camicia da notte spessa che qualcuno le aveva fatto indossare e i lunghi capelli fiammeggianti.
Purtroppo per Anat, la signora Tenner, adeguatamente istruita dal Trovatutto aveva saputo aprofittarsi della debolezza fisica e dell’intontimento della morfica per mettere in atto quanto pattuito. E, con sommo scorno di Anat, Bianca iniziò a recidere una buona lunghezza dei suoi capelli per poi pettinarli con piglio militaresco a districare i nodi, ignorando bellamente i suoi rimbrotti, le sue bestemmie per uno strattone più forte degli altri, le sue lamentele. Per tutto il tempo tre uomini la tennero inchiodata alla vasca, fino a quando la morfica non si rassegnò – complice il violento mal di testa – e ubbidiente si lasciò conciare come una dama per le feste.
Solo all’uso della biacca per schiarire i capelli si oppose fermamente, optando infine per una tintura scura che sarebbe potuta andare via con un semplice risciacquo. Quando si osservò allo specchio, conciata da damina per bene, Anat per poco non scoppiò a ridere fragorosamente e poi, silenziosamente, elevò una preghiera di sentito ringraziamento alle più svariate divinità che le passarono per la testa quando si rese conto che nessuno degli altri l’avrebbe vista conciata a quella maniera. Si osservò critica e stirò le labbra. Beh, se anche li avesse incrociati, probabilmente non l’avrebbero riconosciuta… sempre che fosse stata attenta a non parlare.
«Avrò bisogno di un grembiule, devo scendere al secondo livello.» Disse asciutta e con tono pratico, mentre tirava una ciocca attorcigliata in un elegante boccolo che scendeva sul lato destro del viso. Si rese conto di una lieve stonatura sulla fronte e prese la polvere di biacca, spolverandosi il viso. L’imperfezione scomparve. «Così va meglio.»
La proprietaria della casa la guardò severa, quindi la congedò freddamente: «Ho fatto quello per cui sono stata pagata, ora vattene.»
«Ti farò riavere il tuo vestito… se mi sarà possibile.»
«Per quello che m’importa, puoi anche dargli fuoco. E se trovi quella sgualdrina di mia figlia, fai altrettanto, se proprio vuoi sdebitarti.»
Anat si limitò a sollevare un sopracciglio, ma non indagò oltre. Non erano affari suoi. Tenne il grembiule in mano e studiò attenta le movenze aggraziate della signora, mentre questa se ne andava lasciandola alle serve che l’avevano vestita e che l’accompagnarono all’uscita posteriore. Chiusero la porta in fretta, senza nemmeno lasciarle il tempo di ringraziare o, visto il comportamento scostante, di mandarle a quel paese. Guardò critica la casa comprendendo molte cose, fece spallucce e si inoltrò per le vie cittadine, occhi bassi e portamento elegante. Quando infine arrivò al teletrasporto aveva mal di schiena da quanto era stata rigida nella postura cui non era abituata.
La fila per usare il teletrasporto non era molto lunga e nel frattempo cercò di pensare a un modo per scroccare un passaggio. Di prendere una gondola del servizio pubblico di Sharn non se ne parlava. Mentre era assorta in questi pensieri, si ritrovò davanti l’incaricato.
«Signora?»
Lo guardò straniata. Quello, non riconoscendo in lei nessuno di importante, tese la mano, aggiungendo: «La tariffa, mia signora. Venti argentini.»
Lei si guardò intorno, mimando un finto imbarazzo. Era giunto il momento di entrare in scena. Fece cenno all’uomo di avvicinarsi, sperando che il profumo che le stava ubriacando i sensi ipersviluppati servisse davvero a qualcosa. Come quello le si avvicinò gli sussurrò qualcosa all’orecchio, posando delicatamente la mano coperta dal grembiule ripiegato sul suo stomaco, infilando le dita all’interno della giacca, tra un bottone e l’altro.
L’uomo sbiancò all’improvviso e guardò quel viso dolce aperto in un sorriso ammaliatore mai visto. Guardò la mano ancora contro di lui.
Tentò un sorriso per non allertare il compagno e… tolse il nastro, guardando preoccupato la fila che andava aumentando e che, dannate non c’erano mai quando servivano!, era desolatamente vuota di guardie che scroccavano un trasporto al focolare per far baldoria.
Esattamente dove la signora aveva chiesto di andare.
«Prego, mia signora… indichi al mio collega la sua destinazione, ci arriverà in un attimo.»
La voce tremante fece sorridere Anat in un modo ancora più sinistramente dolce. «Ti ringrazio, ragazzo.»
Tolse la mano, scivolando elegante oltre, dando la sua destinazione e lasciando l’uomo a guardia dell’accesso al portale di trasporto scosso e sudato, tremante di terrore. Si rese conto solo in quel momento di essere sul punto di farsela addosso e si allontanò senza una spiegazione, subito sostituito da un collega che lo guardava preoccupato. «Ehi, Tim!! Tutto bene?!»
Arrivato nello spogliatoio dove si cambiava l’uomo finalmente crollò, le ginocchia non lo ressero oltre e si accasciò. Veloce e con dita malferme si aprì la giacca d’ordinanza, per osservare le strie rosse sulla pelle dello stomaco e del basso ventre, oltre la stoffa lacerata della camicia, strie brevi, della lunghezza di lunghe dita femminili… munite di artigli taglienti come rasoi.
Fu solo dopo aver slacciato le brache e aver controllato che nulla fosse stato reciso come promesso da quelle dita che si insinuavano sotto la cintura che finalmente si lasciò andare. E scoppiò a piangere come il bimbo che lo aspettava a casa e al quale aveva temuto di non dare più un fratellino.


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