RACCONTO: Diario di un Assassino - EPILOGO
«Ho ancora qualche giorno di licenza, capo, quindi lo
passerò nel mio laboratorio. Ci rivediamo tra tre giorni.» Così aveva detto
mentre sellava un baio alle stalle, ignorando le domande ammiccanti di
Haimricht e le pesanti allusioni a mariti infuriati di T’Challa a
giustificazione del suo breve soggiorno a casa.
Tuscia lo aveva guardato scettica, quando lo aveva ritrovato
al desco della cena la sera prima, ma non aveva aperto bocca, mentre Caio
Cornelio si era limitato a qualche battutaccia sulla pericolosità di
cornificare continuamente qualcuno e finendo immancabilmente per minacciarlo se
solo avesse osato flirtare ancora con sua moglie o sua figlia come aveva
spudoratamente fatto a Roma, minacce a cui si era aggiunto, nel caso di Serena,
la figlia di Cornelio, anche Haimricht dal momento che la giovane era la sua
futura sposa anche se Caio Cornelio ancora non aveva dato il suo assenso
ufficiale.
Si era quindi dileguato lasciando a becco asciutto Haimricht
che, dopo un attimo, si era stretto nelle spalle accettando di buon grado la
sua curiosità insoddisfatta e, a quel punto, una volta fuori città Tamer si era
diretto prima a casa di Olaf e Adrastea per passare qualche ora con il figlio,
quindi si era ritirato nel suo laboratorio sfogando in solitudine il dolore e
la rabbia che aveva abilmente represso per giorni.
Si sentiva allo sbando, non aveva più alcun punto di
riferimento.
Le tre notti successive furono un susseguirsi di incubi e lo
stesso ritornò più volte a tormentarlo.
Tamer accese l'ultima candela e si girò lentamente.
Di fronte a lui, nel sotterraneo immerso nella penombra, c'era una donna, fluttuante nell'aria, con le punte dei sandali sollevate ad un palmo dal pavimento, le braccia levate in alto a formare una V, come per invocare gli dei...la posa più caratteristica per lei, sicuramente...il capo reclinato lievemente su una spalla, gli occhi chiusi come se stesse dormendo.
Sembrava stesse sollevata in aria senza sforzo. Solo lui riusciva a vedere, appena più scuri dell'oscurità che avvolgeva gli angoli della stanza, i tentacoli d'ombra che la tenevano appesa per i polsi. Più resistenti di una maglia d'acciaio, più morbidi della seta imperiale.
Le girò lentamente intorno, fino ad arrivarle alle spalle. Ad una ad una sciolse le pesanti trecce che la donna portava sul capo, finchè le sue mani non furono ricoperte da una massa di ciocche ondulate, morbide, scure, profumate, che le arrivavano fin oltre la vita. Affondò profondamente il viso in esse, aspirando a pieni polmoni quel profumo che da anni ossessionava le sue notti.
Ti ho salvato la vita. Tu sei mia.
Rimase ancora qualche istante a godersi quella sensazione, poi tornò di fronte a lei.
Tuscia indossava una veste di lino chiaro, fermata sulle spalle da due fibule di rame. Tamer mosse appena le dita, e le fibule scattarono cadendo a terra subito seguite dalla veste.
Sapeva che lei non si riteneva una gran bellezza. Troppo magra, troppo piatta, fianchi troppo stretti, diceva. Nella fioca luce delle candele, la sua pelle chiara risplendeva come una perla. Tamer osservò come ipnotizzato il contrasto tra la carnagione delle braccia e delle spalle, resa ambrata dal sole, e quella d'avorio che di solito rimaneva nascosta sotto le vesti. Avorio morbido, liscio.
Pura. Innocente.
La sua mano scese dalla mascella, appoggiandosi proprio sopra alla fossetta per cingerle il collo con le dita. Senza neanche stringere, ma consapevole di ogni millimetro di pelle che toccava, dei muscoli che vi erano sotto. Poi scese ancora, fino a posarla sul seno sinistro, sulla piccola areola scura, con lo stesso gesto con cui lei più volte gli aveva controllato il battito cardiaco.
E ora lo sentiva, il battito del suo cuore, lento e cadenzato contro quelle costole fragili.
Quella sensazione lo travolse più potente di un orgasmo. Era il piacere supremo dell'assassino.
Sapere che un cuore batte ancora solo perché sei tu a permetterglielo.
Si risvegliava ogni volta urlando, artigliandosi il petto, avvolto da un sudario gelido di sudore che estendeva la sua morsa fredda fino al cuore che cercava istintivamente di strapparsi via, in un incosciente gesto di rifiuto di tanto dolorosa incertezza.
Di fronte a lui, nel sotterraneo immerso nella penombra, c'era una donna, fluttuante nell'aria, con le punte dei sandali sollevate ad un palmo dal pavimento, le braccia levate in alto a formare una V, come per invocare gli dei...la posa più caratteristica per lei, sicuramente...il capo reclinato lievemente su una spalla, gli occhi chiusi come se stesse dormendo.
Sembrava stesse sollevata in aria senza sforzo. Solo lui riusciva a vedere, appena più scuri dell'oscurità che avvolgeva gli angoli della stanza, i tentacoli d'ombra che la tenevano appesa per i polsi. Più resistenti di una maglia d'acciaio, più morbidi della seta imperiale.
Le girò lentamente intorno, fino ad arrivarle alle spalle. Ad una ad una sciolse le pesanti trecce che la donna portava sul capo, finchè le sue mani non furono ricoperte da una massa di ciocche ondulate, morbide, scure, profumate, che le arrivavano fin oltre la vita. Affondò profondamente il viso in esse, aspirando a pieni polmoni quel profumo che da anni ossessionava le sue notti.
Ti ho salvato la vita. Tu sei mia.
Rimase ancora qualche istante a godersi quella sensazione, poi tornò di fronte a lei.
Tuscia indossava una veste di lino chiaro, fermata sulle spalle da due fibule di rame. Tamer mosse appena le dita, e le fibule scattarono cadendo a terra subito seguite dalla veste.
Sapeva che lei non si riteneva una gran bellezza. Troppo magra, troppo piatta, fianchi troppo stretti, diceva. Nella fioca luce delle candele, la sua pelle chiara risplendeva come una perla. Tamer osservò come ipnotizzato il contrasto tra la carnagione delle braccia e delle spalle, resa ambrata dal sole, e quella d'avorio che di solito rimaneva nascosta sotto le vesti. Avorio morbido, liscio.
Pura. Innocente.
La sua mano scese dalla mascella, appoggiandosi proprio sopra alla fossetta per cingerle il collo con le dita. Senza neanche stringere, ma consapevole di ogni millimetro di pelle che toccava, dei muscoli che vi erano sotto. Poi scese ancora, fino a posarla sul seno sinistro, sulla piccola areola scura, con lo stesso gesto con cui lei più volte gli aveva controllato il battito cardiaco.
E ora lo sentiva, il battito del suo cuore, lento e cadenzato contro quelle costole fragili.
Quella sensazione lo travolse più potente di un orgasmo. Era il piacere supremo dell'assassino.
Sapere che un cuore batte ancora solo perché sei tu a permetterglielo.
Si risvegliava ogni volta urlando, artigliandosi il petto, avvolto da un sudario gelido di sudore che estendeva la sua morsa fredda fino al cuore che cercava istintivamente di strapparsi via, in un incosciente gesto di rifiuto di tanto dolorosa incertezza.
Sapeva, però, che quell’incubo lo avrebbe perseguitato per
il resto della sua vita. Ma quale vita? Era un Rinnegato ora, Lama Danzante non
esisteva più. Non ci sarebbe voluto molto prima che gli Assassini di Seth lo
scoprissero e venissero a stanarlo.
La logica avrebbe voluto che si allontanasse il più
possibile, magari che andasse su al nord. Avrebbe potuto richiedere di essere
distaccato in una qualunque altra coorte… ma questo non avrebbe messo in salvo
Tuscia e gli altri dalla furia degli Assassini in caccia di un rinnegato che
era riuscito a sfuggire loro.
La fatwa lo aveva colpito a tradimento, nel sonno, sotto
forma del coltello da cucina di sua madre e dei pugnali avvelenati della cugina
di suo padre, anche lei assassina. Solo gli dei sapevano come fosse stato
possibile che si salvasse, ma ci era riuscito grazie anche a tutti gli anni di
duro e pesante allenamento.
E ora da tutta questa storia aveva imparato ad affinare
ulteriormente l’arte di mascherare e sopprimere nel profondo i propri pensieri,
di negare le emozioni e i sentimenti. Anche se…
Anche se era conscio di non riuscirci perfettamente. Il non
volersi davvero distaccare dalla XVII Coorte e dai suoi compagni era motivato
dal fatto che loro rappresentavano più di chiunque altro la sua famiglia.
Bislacca e sgangherata all’inverosimile, ma sincera e genuina.
«Non merito tanto, io che per primo non concedo loro
altrettanto.» Ripeteva alle fiamme del focolare centrale più volte, ascoltando
l’eco della propria voce, fosse anche solo per un secondo, giusto per
confondere la voce interiore, sempre più simile a quella di Magister Gawain,
che lo ammoniva con le stesse profetiche parole della sua Maestra di un tempo, Archantes:
Domina le ombre o saranno loro a dominare te.
Facile a dirsi. Ma ce la poteva fare. Era un Assassino di Seth, un Maestro d’Ombra e un’Ombra di Mercurio. Quanto di meglio la Specula poteva fornire per operare nelle coorti della Legio M Ultima. Ce la poteva fare.
La pioggia batteva insistente quell’ultima notte e dopo l’ennesimo
brutto risveglio, Tamer rimase a lungo sotto le lenzuola a rimuginare su tutto
questo e su che cosa combinare della propria vita. Ammettere con i compagni di
essere un Assassino era fuori discussione: lo avrebbero passato a fil di spada
molte e molte volte, non solo per ciò che rappresentava, ma anche per il fatto
di non averlo detto prima. Non avrebbero mai e poi mai creduto a quanto
successo a come Archantes, la sua adorata Maestra, colei che gli era stata più
madre della donna che lo aveva messo al mondo lo avesse usato e accusato
ingiustamente. A come lo aveva rinnegato.
Mancavano ancora due ore all’alba quando prese la sua
decisione e con uno scatto scostò le coperte e si diresse in solo subligar al
focolare. Dopo aver rinvigorito il fuoco rimestò in una sacca gettata in un
angolo estraendone alcuni rotoli. Li guardò con rabbia e rammarico quindi con
serafica calma li svolse dandoli in pasto alle fiamme una pagina alla volta.
Dopo quasi mezz’ora finì di bruciare l’ultimo, mandando in
fumo tutti i segreti della Specula che nel corso degli ultimi tre anni aveva
raccolto. Quei segreti sarebbero morti e sepolti con lui, aveva giurato e ora
la Legio M Ultima e la Specula era tutto ciò che gli rimaneva.
Osservò lo spiraglio di luce dell’aurora che annunciava la
prossima alba. Si tolse il medaglione di Seth e lo tenne sospeso sulle fiamme,
guardando ipnotizzato la loro danza ammaliante, mantenne vivo il fuoco fino a
quando il medaglione non divenne incandescente e la catenella gli ustionò la
mano. Non l’apri, lasciando che il dolore gli mordesse il palmo e le dita poi
inspirò di scatto e con lo stesso scatto chiuse gli occhi e fece roteare sopra
la testa il medaglione che andò a posarsi sulla spalla.
Nell’aria fredda dell’alba incipiente lacrime amare scesero
lungo le gote scavate a depurare un’anima in pena mentre, con i primi raggi di
sole, si levava un urlo di dolore accompagnato dall’odore acre di carne
bruciata, in un macabro rituale di offerta a Seth.
Si risvegliò due ore più tardi, il volto nella cenere
pericolosamente vicino alle fiamme che aveva alimentato con i segreti che aveva
rubato e con la sua stessa carne. Risollevandosi faticosamente a sedere il
medaglione si staccò dalla carne bruciata strappandogli un sussulto con il suo
sordo tonfo sul pavimento di legno. Lo osservò e come un automa lo raccolse e
lo ripulì prima di indossarlo nuovamente.
Il dolore alla spalla era lancinante e dopo essersi lavato,
ancora barcollante, controllò in uno specchio il risultato del suo lavoro.
Sulla pelle bronzea spiccava rosso come il fuoco e nero come il fumo il marchio
dell’infamia che accompagnava tutti gli assassini di Seth colpiti da una fatwa.
Solitamente veniva fatto al centro del petto dagli altri assassini una volta
catturato il traditore e quanto accadeva dopo raramente lasciava vivo il
destinatario di tante attenzioni.
Con un sospiro si rese conto che avrebbe dovuto rivolgersi a
un medico del castra per evitare infezioni e non a Tuscia, benché avesse nella
divinatrix e sapiente medico una fiducia incondizionata. Fece un sorrisetto di
scherno al suo viso scavato riflesso nello specchio, si rivestì a fatica,
crollando miseramente a sedere sul letto più di una volta e quindi, reggendosi
in piedi più per testardaggine che reale forza, sellò il cavallo e si diresse
al castra di Antiochia. Tornava dai suoi compagni speculatores,
Aveva ancora una vita e l’avrebbe vissuta appieno, finché fosse
durata.
Perché, in fondo, lui era Tamer Aziru Khenzer. Era un Maestro d'Ombra, un'Ombra di Mercurio. Un Assassino di Seth. Ma, soprattutto, era uno Speculator.
Nota dell'autrice ai lettori
Siamo quindi giunti all'epilogo di questo diario, di cui ora si sa, non vi è traccia alcuna se non nella cenere della memoria.
Grazie per aver seguito questa storia, spero che sia stata apprezzata.
Ringrazio sentitamente gli amici de "La cripta degli assassini", fornitori di numerose immagini del famoso gioco Assassin Creed utilizzate in queste venti puntate, se siete appassionati di AC non perdetevi le ultime novità che i ragazzi pubblicano anche sulla loro fan page di FB.
Nota dell'autrice ai lettori
Siamo quindi giunti all'epilogo di questo diario, di cui ora si sa, non vi è traccia alcuna se non nella cenere della memoria.
Grazie per aver seguito questa storia, spero che sia stata apprezzata.
Ringrazio sentitamente gli amici de "La cripta degli assassini", fornitori di numerose immagini del famoso gioco Assassin Creed utilizzate in queste venti puntate, se siete appassionati di AC non perdetevi le ultime novità che i ragazzi pubblicano anche sulla loro fan page di FB.
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