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RACCONTO: Antico Credo - 8

L’elenco dei nomi fatti al senatore Cornelio aveva dato i suoi frutti sanguinolenti: pezzi di avversari politici erano stati trovati sparsi per Roma, un altro era stato trovato infilzato come un maiale sullo spiedo con una mela in bocca e un’altra in un posto meno prosaico, un settimo era stato difficilmente ricomposto con quanto era rimasto dopo essere accidentalmente caduto nella fossa dei leoni dell’anfiteatro Flavio.
Omar depennò soddisfatto l’ennesimo nome dalla sua lista, notando come si fosse notevolmente accorciata. Molti li aveva eliminati personalmente, altri erano stati sistemati dai suoi uomini e poi sostituiti con agenti della Specula sotto copertura, altri ancora erano stati portati via dal caso e dagli eventi, anche se su molti di questi eventi casuali sembrava esserci sempre lo zampino di Zarich.
Non ne aveva le prove e quindi lasciò perdere la cosa con una scrollata di spalle: in fin dei conti stavano agendo con lo stesso fine ultimo e fin da prima dello scoppio della Rivolta loro cinque, gli Spectra, avevano avuto modo di parlare del problema che, all’epoca, sembrava remoto e strisciante. Quanto si erano sbagliati.
Ora, però, doveva fare in modo di proteggere il Cornelio.
Quando gli assassini lo raggiunsero alla popina della Suburra dove erano soliti ritrovarsi e gli fornirono i documenti che avevano rinvenuto nelle case dei riformisti fatti fuori dal Cornelio, tirò un sospiro di sollievo nel sentir confermate e comprovate le proprie tesi. Difendere il futuro ex-senatore sarebbe stato complicato, altrimenti: non era andato proprio per il sottile e il taglio di un arto solo un’ascia lo garantiva così netto come riscontrato e a Roma erano in pochi a saper maneggiare un’arma del genere. Così pochi da restringere il numero a uno e questa era stata una mossa assai stupida da parte del Cornelio, anche se lo comprendeva. Lui voleva che si sapesse chi aveva colpito.
Tornò al suo ufficio di prefetto, stilò un rapporto conciso, allegò le prove e convocò un magistrato a cui le consegnò, insieme con l’ordine di convocare il senatore, attualmente locato presso la sua villa di Cuma. Quindi mandò un messaggero al magisterium concordis a richiedere l’ausilio di un conciliator che sapesse comunicare a distanza, doveva convocare l’assemblea magistralis e sarebbe stato molto più semplice e segreto così: in seguito alla Rivolta tutti i Magistri della Specula erano stati richiamati a Roma, visto e considerato come i Riformisti avessero attaccato il magisterium minervius di Athenae; il messo aveva il compito di portare la missiva con il rapporto e la sua richiesta di convocazione dell’Assemblea Magistralis entro breve.
Il conciliator arrivò dopo circa un quarto d’ora e Omar si stupì di vedere in piedi davanti a lui una di quelle che venivano definite leggende nella Legio M Ultima: Domiziano Severo Agostino, un veterano ora diventato senatore succedendo al padre e al fratello maggiore al soglio senatorio. Nonché marito dell’attuale Magistra Sapientum, Azia Medea Rubinia Antinea.
«Domiziano Severo Agostino, ave. È un piacere vederti. Come sta tua moglie?»
L’altro rispose al saluto con cortese freddezza e dondolò appena la testa in risposta alla domanda sulla moglie. D’altronde era comprensibile: erano passati tre anni da quando aveva dovuto seppellire il vecchio magister Quinto Baieno sotto le macerie del tempio di Atena/Minerva, poi era stata ferma per la gravidanza e solo un anno prima la loro figlioletta era stata brutalmente assassinata per conto del Riformista e loro gli stavano dando una caccia serrata, pur senza risultati.
«Ho sentito la richiesta e visto che ero libero sono venuto io. Inoltre penso ti serva una certa celerità e sicurezza di riuscita, scusa l’arroganza ma in questo periodo è meglio affidarsi all’esperienza.»
Sorrise, Omar, e annuì. Provava una gran pena per l’uomo davanti a lui, per il triste destino suo e della sua famiglia.
«Meglio ancora che sia tu, conosci tutti i magistri, sai meglio a chi indirizzare il messaggio: voglio convocare l’assemblea magistralis per la prossima settimana.»
L’altro annuì, poi si fermò e chiese: «Gawain non so dove sia, ma immagino non sia a Roma.»
«A lui penserò io, abbiamo il nostro canale particolare.»
«D’accordo.»
Domiziano si richiuse in se stesso, concentrandosi, coltivando il calore del potere che sentiva attorcigliarsi e accoccolarsi nel centro del petto, quindi inspirò a fondo e diede voce al messaggio, con un sussurro appena sospirato. Uno zefiro dorato gli danzò attorno per poi sparire, quindi il conciliator sollevò di nuovo le palpebre a fissare vuoto il prefetto. «Posso fare altro?»
L’altro negò con la testa e lo ringraziò, si congedarono con una virile stretta di mano sui rispettivi avambracci quindi Omar fece capolino dalla porta e ordinò al suo segretario di far arrivare una portantina, cosa che stupì alquanto l’altro visto che solitamente il prefetto preferiva di gran lunga camminare e muoversi da solo.
Giunti i portantini con la lettiga Omar vi salì e ordinò di raggiungere il Tevere e di scendere l’argine fino all’acqua. Una volta lì scese e li istruì per riportarlo indietro a casa di Giulia Varrone una volta che fosse risalito. Chino sull’acqua tocco il fluire della corrente e lasciò che il suo messaggio e un pezzo della sua anima se ne andasse con essa per poi nuotare e muoversi nel mare alla volta di un’isola lontana. Rimase immobile, chino sul bordo del fiume, per quasi due ore durante le quali i portantini cominciarono a innervosirsi. Poi, con un gemito dolente l’uomo tentò di rialzarsi, incespicò, cadde bocconi e solo la prontezza dei due portantini più vicini gli impedirono di finire del tutto nel fiume.
Lo caricarono di peso sulla lettiga, tirarono le tende sulla pelle pallida e sudata, tirata dalla fatica e dopo aver sollevato il loro carico corsero verso la casa della più famosa e potente veggente di Roma, Giulia Varrone. E corsero come se non ci fosse stato un domani.

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