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RACCONTO: The Fate of Eberron - 10

V – In Arresto!





Andarono a dormire tardi, dopo essersi congedati da A.R. Jekis, mandando giù amaro agli ordini stilettati da un’Anat infuriata per la testardaggine di Lorian a voler sondare la testa del forgiato distrutto e catturato, ma ammettendo intimamente che i suoi erano ordini dettati dal buon senso e da una capacità strategica che a loro – tutto sommato – mancava. Dopotutto, era pur sempre, lei, un generale dell’esercito e quei gradi se li era guadagnati sul campo in meno di dieci anni.
Questo non voleva certo dire che avrebbero obbedito ciecamente e senza fiatare. Non erano del suo battaglione e, soprattutto, non erano in guerra!
Almeno… fu quella la convinzione con cui andarono a dormire.
L’esser andati a dormire alle prime luci dell’alba costò loro un brusco risveglio a metà mattina. Dormivano nei comodi letti – e Fender era nel suo angolo nel laboratorio a sistemare e oliare le sue parti più delicate – messi a disposizione da Lorian: anche se a disagio, la stessa Anat aveva convenuto che fosse stupido per lei e Sylvion scendere di nuovo nel Focolare di Bolderyn per andare a dormire alla locanda di Pia e avevano accettato l’ospitalità dell’artefice.
Il campanello ronzò insistente, fino a quando un assonnato Lorian non rispose dal suo sistema di comunicazione che, grazie agli artefatti magici che aveva costruito, deviava nelle tre stanze principali della casa che lui utilizzava: camera, studio e laboratorio. Amaramente constatò che il maggiordomo non si era fatto vivo, forse è andato a spiattellare tutto al gran capo. Figlio di puttana…
Il pensiero venne interrotto da voci concitate che arrivavano nella zona notte dall’androne di accesso al suo appartamento. Sbuffò, facendosi violenza per alzarsi e iniziare a vestirsi. Mentre finiva di allacciare le brache, ancora a piedi nudi e con la camicia aperta, entrò dopo un lieve e discreto bussare il maggiordomo.
«Signore?»
«Che c’è?» Chiese sgarbato Lorian.
«Ci sono le guardie alla porta.»
«Guardie?»
«Sì, le guardie cittadine di Sharn. Chiedono di parlarvi.»
«Falle accomodare all’ingresso, non mi va che tutti i Cannith sappiano gli affari miei.»
Notò, Lorian, la minima contrazione sul volto del maggiordomo. «A meno che non siano quelli che tu vai a dire in giro, Williams. Dico bene?»
Il maggiordomo non cambiò espressione, se il fatto che Lorian Artimagius sapesse chi era e cosa faceva lo aveva colpito, questo non trasparì dalla maschera di fredda e distaccata educazione che l’altro sfoggiava. «Temo non sia possibile, signore. Le guardie non sono ammesse all’interno di Palazzo Cannith a meno che il Sommo Lord non dia il suo consenso.»
Lorian fece una smorfia divertita. «Consenso che immagino non tarderà ad arrivare, giusto?»
«Temo di sì, mio signore. Vi converrebbe sbrigarvi.»
«Il mio caffè?»
«Già pronto nel vostro studio. Devo… svegliare i vostri ospiti?»
Ospiti. Se avesse detto ‘rifiuti di guerra’ sarebbe stato più adatto al tono che aveva usato. «Sì, svegliali e fai portare la colazione nel mio studio anche per loro. Abbiamo degli affari urgenti da sistemare prima che io veda le guardie. Fai sapere a lor signori che scenderò non appena sarò vestito e che, sì, mi hanno svegliato visto che la notte scorsa ho dormito ben poco.»
«Come ordinate.»
Viscidamente ossequioso Williams uscì, mentre Lorian terminava di vestirsi, indossando il farsetto e poi la marsina di pelle di kars lunga fino alle ginocchia. Uscì dalla camera e nello studio venne accolto da Fender e Sylvion, mentre Anat li raggiunse poco dopo con le scarpe in mano e un’espressione assonnata in viso, i lunghi capelli raccolti in una treccia grossa come il pugno di un uomo sfatta per il sonno. «Che diavolo c’è per tirarci giù dal letto dopo solo tre ore?»
«Guardie.» Rispose fosco Lorian, prendendo il bricco del caffè e versandone una dose generosa in una tazza di fine porcellana per Sylvion. I due si guardarono negli occhi e sotto quelle pozze bianche, sulla pelle grigiastra, l’artefice vide le profonde occhiaie grigio violacee. Rabboccò senza dir nulla la tazza di caffè riempiendola fino all’orlo.
«Vuoi caffè, rossa?»
«No, non mi fa dormire.»
«Come vuoi.»
Pose il bricco mentre Fender chiedeva: «Che vogliono le guardie da noi?»
«Da noi non so, da me qualcosa.»
«Hanno chiesto solo di te?»
«Così pare.»
«Sarà per quel casino che hai combinato a Punta Spada ieri sera.» Commentò acido Sylvion.
«Può darsi. Comunque sia, adesso devo scendere, è già troppo che aspettano. Vi suggerirei di andarvene per… una strada alternativa.»
«I tetti?» Chiese Fender, curioso. Se Lorian suggeriva di prendere la via dei tetti la situazione doveva essere peggiore di quel che sembrava. O forse l’amico era semplicemente prudente.
«Tu conosci la strada, Fender, guidali.»
«Va bene. E poi dove ci troviamo?»
Il silenzio calò e Anat stiracchiandosi, biascicò: «Escludiamo Pia: se invece di cercare solo te cercano tutti noi, io e Sylvion siamo registrati lì. Bruciati.»
Si chinò noncurante a infilarsi i vecchi e consunti stivaletti militari, per poi fermarsi con espressione meditabonda. Tutti seppero cosa stava pensando: tetti. E Anat era allergica alle altezze superiori ai due metri.
Il changeling tossicchiò, attirando l’attenzione di tutti: «C’è un vecchio magazzino, ai docks abbandonati che ha ancora il tetto in piedi… lì dentro c’è una porta nascosta dietro alcune casse che si sblocca con questa.» Mise in mostra una pietra agganciata al bracciale che gli fasciava stretto il polso sinistro. «Ci troviamo là, se volete.»
Non gli chiesero se fosse un posto sicuro: era la base di un Thuranni, per quanto reietto, e la sicurezza del posto non poteva essere messa in discussione, anche solo per il fatto che la pietra portava il simbolo dei Kundarak, maestri della sicurezza. Non per niente erano ricchi banchieri e commercianti in tutto il Khorvaire e mai si era sentito di una rapina che li avesse visti defraudati dei beni che custodivano.
Si accordarono, mandando giù amaro agli ordini stilettati da Anat ben sapendo che lei era la miglior stratega tra loro, su come muoversi e sull’ora di incontro – mezzogiorno – al dock, quindi Anat li stupì iniziando a spogliarsi e mutando in stirpe mannara al contempo.
«Che accidenti fai?»
La ragazza scosse la testa, liberando i capelli ora ispidi, e piantò i suoi occhi di ossidiana in quelli di Lorian: «Io vengo con te. Che ti piaccia o no.»
Finito che ebbe di spogliarsi guardò Fender e Sylvion, posando i quattro lunghi coltelli che portava addosso sopra al plico di vestiti: «Portatemi i vestiti, per favore. In forma di lupo la cosa non mi riesce molto bene.»
Sylvion prese i vestiti con aria scettica, per poi passarli a Fender che li inserì con un grugnito in un vano che aveva nel braccio. Da quando Lorian gli aveva tolto – in base all’editto di Fortetrono – il blazercannon, il suo braccio era diventato un comodo vano porta oggetti.
Rimpiangeva il suo blazercannon.
Ne sentiva la mancanza.
Anat mutò forma divenendo il lupo fulvo che avevano incrociato nei campi di battaglia e il gruppo si separò: Lorian con il suo famiglio scese la grande scalinata facendosi ben vedere dalle guardie attraverso l’imponente portone di vetro colorato, mentre Fender e Sylvion – dopo una rapida puntata al laboratorio per recuperare la testa del forgiato – salirono con l’ascensore fino al tetto.
«Non ho mai capito come facciano questi cosi a muoversi.»
Fender guardò il changeling e scosse la testa rassegnato. L’ignoranza era una gran brutta bestia. «Alla base del palazzo è imprigionato un elementale del fulmine che, con la magia dei Lyrandar, fornisce l’energia magica necessaria alla piattaforma di sollevarsi e abbassarsi.»
«Perché queste pareti, allora?»
«Degli idioti alle volte si sporgono per vedere meglio la meraviglia del Palazzo dall’alto. Serve a evitare che sporchino il pavimento in basso.»
Sylvion ridacchiò dell’impietosa descrizione del forgiato.
Giunti che furono al portone Lorian guardò il lupo accanto a lui, il muso affusolato alzato e gli occhi neri brillanti di intelligenza e preoccupazione. Sorrise. «La cosa veramente bella di te in questo stato è che non puoi sparare ordini a raffica. Dovresti restare lupo più spesso.»
Gli rispose un basso ringhio che lo fece ridere. Aprendo il portone e uscendo si raccomandò: «Niente colpi di testa, cerca di comportarti come… come un cane.»
Il Lupo delle Lande abbaiò.
E Lorian sapeva che non era per assecondarlo. Avrebbe scommesso l’intero appartamento che quel singolo abbaio potesse essere tradotto in un mirabile: vaffanculo.

Entrò nel bugigattolo che chiamava casa al secondo livello di Sharn passando attraverso pile di piatti sporchi, mucchi di vestiti da lavare e calciando un paio di bottiglie vuote.
Malfermo sulle gambe, l’uomo caracollò fino al letto dove si stese. Fissando il soffitto si portò la bottiglia alla bocca e ingollò una sorsata generosa di qol. Non bastava. Non era ancora abbastanza ubriaco. Non lo sarebbe mai stato a sufficienza per dimenticare certi orrori.
«Non ti vediamo preso bene, Artemius.»
La voce si levò dal buio della stanza, da quell’angolo infimo dove, più o meno, stava il tavolo con l’unica sedia e la madia desolatamente vuota.
«Fottiti.»
«Bel modo di salutare coloro che non vedi da vent’anni…»
«Non mi chiamare così, stronzo.» Biascicò l’uomo, per poi bere altro qol.
«Sei davvero preso male… siamo venuti per scambiare quattro chiacchiere tra vecchi amici prima che venissero a prenderti, ma è evidente che non ne sei in grado.»
L’ombra si staccò dalle tenebre ed entrò nel suo campo visivo, grigia e fosca illuminata malamente da quel cazzo di lampione giallo che avevano risistemato proprio il giorno prima. Avrebbe dovuto scassarlo di nuovo per poter dormire in pace. E lasciare che gli incubi tornassero.
Bianche orbite si incollarono ai suoi occhi scuri. Un ghigno freddo come il sorriso della morte si aprì in una falce spettrale sul volto del changeling i cui capelli bianchi erano striati da un’unica ciocca azzurra.
«Ma…» Gli era parso di ricordare quella ciocca azzurra… ma i suoi pensieri annebbiati dall’alcol furono interrotti.
«Non sta bene, sai. Non sta affatto bene quel che fai. Noi ti abbiamo dato fiducia, Artemius… perché ora ci deludi? Ora siamo costretti a farti male.»
«Tu…?»
La domanda fu interrotta da un bussare violento alla porta, che divenne in breve un tonfo ripetuto, tonfo profondo, devastante. Infine la porta si scardinò sulle bestemmie di parecchie persone.
L’uomo sul letto smaltì la sbornia all’istante, nel ricordare quella ciocca azzurra e lo stupore fu palese sul suo volto invecchiato e duro come cuoio e il divertimento brillò per un istante nelle pozze bianche e senza dettagli di quegli occhi amorfici.
Il vociare delle persone che avevano fatto irruzione nell’appartamento si divisero per le tre camere, ispezionavano come lui aveva insegnato i locali. Bravi sti ragazzi… pensò paradossalmente l’uomo, concentrato sul concretizzarsi dei suoi incubi.
Il changeling sorrise: «Non ti preoccupare… abbiamo limitato i danni.» Il sorrise divenne ghigno sadico e compiaciuto al terrore dilagante che pervadeva inarrestabile gli occhi scuri dell’uomo. «Bene, ti ricordi di noi, Artemius Renard Jekis. Molto bene.»

«Buongiorno, cosa posso fare per voi?»
Il lupo annusò l’aria e poi voltò la testa a guardare un pescivendolo che fece di sì fervidamente con la testa alla volta del caporale che poi rivolse un severo cipiglio a Lorian.
«Maestro Artimagius… abbiamo l’ordine di arrestarvi.»
Lorian sudò freddo. Non per la notizia, si aspettava un qualche tipo di ritorsione, ma per come avrebbero potuto reagire gli altri. Purtroppo non c’era stato il tempo di coordinarsi con loro e forse… forse le cose sarebbero andate lisce e tranquille. Vide il fulvo lupo puntare un uomo che, quando si rese conto di essere oggetto della sua attenzione impallidì e, dopo qualche veloce scambio con la guardia, fuggire letteralmente. Incrociò lo sguardo del lupo e si capirono: qualcosa non andava.
«Capisco.» Rispose quindi alle guardie, mantenendo un certo sangue freddo. Jekis. Jekis avrebbe potuto risolvere la questione. «Ma non capisco: giusto ieri sera con il capitano Jekis ci siamo accordati per una collaborazione alle…»
«Il capitano Jekis è stato arrestato meno di un’ora fa.»
«Ah.»
Lorian scambiò uno sguardo incerto con il lupo che, ignorato dai più dopo un primo momento di sconcerto, ammiccò. L’artefice si lasciò sfuggire un mezzo sorriso e annuì. Si chinò a carezzare il lupo e solo lui poté sentire quell’ansito che tanto poteva essere scambiato con un sospiro di esasperazione. Ghignò affondando il viso nel pelo folto, mormorando: «D’accordo, ragazza, stammi a sentire: abbiamo bisogno di Jekis secondo te?»
Un guaito fu la risposta.
Sì.
«Hai un’idea di come tirarlo fuori?»
Il lupo scodinzolò vigorosamente, lamentandosi. Lorian guardò la coda. No.
«D’accordo.» Lorian si alzò in piedi, raccomandandosi come si farebbe con un bambino: «Non fare casini, Ani, intesi? Non mi faranno del male. Andiamo, dunque, la legge deve fare il suo corso.» Concluse infine, rivolgendosi alle guardie allungando davanti a sé le mani con i palmi verso l’alto, aperti.
E su quei palmi si stagliò un’ombra che diveniva via via sempre più grande.
Per il sacro marchio di Syberis, fate che non sia quello che temo…

Fender e Sylvion non attesero di vedere Lorian e Anat scendere incontro alle guardie. Guidando il changeling, l’enorme astrocarrier si diresse nel laboratorio celato dietro la libreria dopo aver tolto da chissà quale sua cavità interna una gemma che ne comandò l’apertura e recuperarono la testa del forgiato distrutto sopra al bancone. O, meglio, Fender ne recuperò il core mistico, spaccando l’involucro del cranio in adamantio con la sola forza delle mani.
Allo sguardo interdetto del changeling, che aveva nel frattempo assunto la più consona fattezza di un elfo, Fender emise un suono gutturale simile a un grugnito, spiegando: «Questa è la parte importante di un forgiato. Distrutto questo, il core, di un forgiato non rimane più nulla. Anat è stata brava: nella furia è riuscita a frenarsi.»
«Tu dici?»
«Tu non l’hai vista all’opera contro i forgiati.»
«Guarda che c’ero anche io quella notte.»
«E l’hai vista combattere contro uno di noi?»
«No, in effetti no… è riuscita non so come a occuparsi di quei lupi.»
«Anat non si limita a disattivare un forgiato, Sylvion. Lei li distrugge. Arriva sempre al core.»
«Se è sempre nella testa è facile.»
«Di solito la posizione del core cambia da artefice ad artefice. Ma da quello che so io nessuno lo posiziona nella testa per la troppa facilità di individuazione.»
«Capisco. Quindi ognuno lo fa diverso?»
«Faceva. Le forge sono tutte spente.»
«Ma dai che non ci credi nemmeno tu.»
Fender rimase in silenzio per lunghi momenti mentre attraversavano un corridoio che li portava al tetto. «Buona parte sì.»
Sylvion rise, imitato dal forgiato, per poi zittirsi e tendere le orecchie. Passi pesanti riverberavano per le sottili pareti e fragili colonne, tenute insieme dalla magia Cannith. Batté un pugno sul braccio del compagno per ottenere il silenzio e sporgendosi dalla balaustra in legno leggero guardò prima in basso e poi in alto.
Sopra di loro campeggiava l’enorme soffitto a volta tassellato, in cristallo trasparente da cui pioveva la luce del giorno inondando tutto il palazzo Cannith e l’androne ovale attorno a cui si sviluppava in leggiadre volute architettoniche.

«Fender… siamo nella merda.»
Fender, a sua volta, aveva seguito lo sguardo del changeling, individuando anche lui le ombre sopra il tetto e le sagome delle guardie che stavano salendo, piazzando due guardie armate di bastoni elettrici a ogni accesso al piano elevatore.
«Uh. Muoviamoci, sul tetto. Le navi della guardia Lyrandar sono ancora abbastanza lontane per tentare.»
«Veloce allora!»
Il forgiato non se lo fece ripetere e veloce per la sua imponente stazza raggiunse una sezione del
corridoio arredata con una console su cui campeggiava un vaso di fiori. Che all’avvicinarsi del forgiato si illuminò debolmente e traslò di lato, dando libero accesso a una rampa di scale che li portò, finalmente sul tetto.
Da lì si guardarono attorno un attimo spaesati: anche dall’alto del primo livello Sharn era uno spettacolo mozzafiato, Fender utilizzò i suoi occhi meccanici per avere una buona valutazione della distanza e disse: «Siamo fottuti, le navi sono maledettamente veloci. Non riusciremo a entrare non visti e non voglio bruciare la via dei tetti.»
Nel frattempo Sylvion, riparandosi il viso dai capelli arruffati dal forte vento dell’altezza, si era sporto dal parapetto per guardare giù, una decina di piani più in basso e quel che vide non gli piacque molto. Chiosò acido: «Tanto Anat e Lorian son bruciati di loro, dubito che li vedremo ai docks.»
Fender si sporse a sua volta.
«Mmmm.»
«Mmmm, cosa?»
«Quanto sarà alto?»
«Una cinquantina di metri… ho contato dieci piani, più l’atrio del palazzo.»
«Beh, non c’è molto da fare. Io mi butto.»
E, semplicemente saltò il parapetto lanciandosi nel vuoto.
Sylvion lo guardò stralunato. Sollevò gli occhi al cielo. «Roba da pazzi. Ti seguoooo….»

Si incontrarono a mezz’aria, Sylvion sguainò le sue due spade e tenendone una tra i denti sorrise a Fender prima di agguantarlo e accucciarsi su di lui per prevenire l’impatto.
Il forgiato era più duro del diamante. Lui no.
Piombarono sulle guardie, attorno a Fender si creò un cratere su cui ricadde con grazia, come uno sbuffo di polvere, Sylvion, che si era staccato saltando in alto appena prima che il forgiato sfondasse il selciato.
Le tre guardie sotto di lui morirono sul colpo, senza nemmeno rendersi conto del perché Lorian e il suo nuovo famiglio si fossero lanciati di lato così repentinamente. Le altre due, riparatisi il volto dalla polvere sollevata dall’impatto, ebbero appena il tempo di osservarsi le braccia cadere a terra, prima che la testa le seguisse, mantenendo in faccia un’espressione di stupito orrore.
Dal cratere, avvolto dalla polvere, si levò lenta e solenne l’imponente figura del forgiato che avanzò inesorabile verso i tre. Guardando con bagliori divertiti alla volta del lupo che aveva ancora tutto il pelo ritto, disse con aria compiaciuta e baldanzosa: «Paura, eh?»



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