RACCONTO: The Fate of Eberron - 8
IV – M. AR. C. US.
Dirimere il caos, con la testa che scoppiava per lo
sforzo di concentrarsi e trovare una giustificazione – plausibile – a quanto
accaduto, non fu facile per Lorian. Un aiuto insperato venne da una guardia,
che uscì dalla nube di polvere che ancora avvolgeva quella parte di Punta di
Spada incontro ai militari armati che circondavano lui e Fender.
«Aspettate! Aspettate!»
«Cosa vuoi, Luki?»
Il ragazzo, si accorsero i due sotto mira, era lo
stesso che li aveva fatti passare, sebbene ricoperto da un denso strato bianco
di polvere d’intonaco, che lasciava liberi solo gli occhi, profonde pozze nere
di vivido terrore dorate dalle fiamme delle torce e delle lampade che venivano
disposte intorno al perimetro di sicurezza. Raggiunto il militare che aveva
parlato, sempre tenendo puntata contro la gola di Lorian la sua picca, Luki
rispose: «Aspetta, Juun. Mi ha salvato la vita!»
L’altro lo guardò storto: «E che ci facevi nel
magazzino 7? Non eri alla guardiola?»
Bella domanda, tenente. Pensò Fender, guardando dal cumulo
di polvere ambulante a quel tale Juun.
«Sì, beh…»
«Luki, maledizione! Hai di nuovo lasciato il posto di
guardia!»
«Ma c’è Thalos! Cavolo, Juun, non urlare che mi
confondi!»
Il tenente sbuffò: «Allora?»
«Allora, dopo che sono entrati ho ripensato a quello
che aveva detto quel tizio, l’Artimagius… sì, beh, ‘spetta, quello è Lorian
Artimagius, sì non ammazzarlo che Gedin si incazza, ma comunque la sua versione
non mi convinceva, però è un portatore del marchio e mi sembrava sbagliato
farlo aspettare, e poi ha parlato di rompere le palle a Gedin e sai come si
incazza quando lo chiami di notte e allora li ho lasciati passare, poi però ho
chiamato Thalos, mi sono fatto sostituire e li ho seguiti. Passato il ponte sul
vuoto ho fatto il giro sulla darsena per non farmi scoprire, là è tutto aperto.
Volevo controllare che non rubassero niente, ecco. Sono entrato nel magazzino
con il codice di sicurezza 3, sì lo so che è il tuo e che non lo dovevo usare,
ma mi sembrava importante e li stavo aspettando al varco quando tutto ha
cominciato a tremare e poi è esploso. Ho pensato: è finita! Adesso vien tutto
giù e invece… a parte non riuscire a respirare non è successo niente. Ti giuro,
Juun! Credevo di esser morto. Sono uscito e li ho visti… quei cosi di pietra
dico. Alcuni sono entrati dentro e stanno tenendo tutto in piedi per merito
suo.»
Il fiume di parole finalmente si infranse contro uno
scoglio di silenzio e Juun, così come gli altri che ascoltavano, tirarono quasi
un respiro di sollievo, tanto si sentivano frastornati dal tono concitato del
giovane.
Prima che chiunque potesse reagire, mentre Fender in
tutto quello sproloquio aiutava Lorian a rimettersi in piedi e a restarci, Luki
si precipitò dall’artefice e gli prese una mano sollevata al cielo, scuotendola
vigorosamente con entrambe le sue. A ogni scossone uno sbuffo di polvere
investiva il Cannith.
«Grazie! Grazie! Grazie!»
«No-o-o-n c’è di che.» Riuscì a balbettare scosso
Lorian.
«Va bene, va bene… bando alle ciance, Artimagius, e tu
Astrocarrier… nel mio ufficio. Luki, va’ a darti una ripulita e torna al tuo
posto! Sergente Dann! Metti insieme una squadra e ripulisci questo casino!»
Lorian si fece avanti: «Scusi tenente…»
«Che c’è? Ringhiò quello, assomigliando in modo
incredibile a Jekis, in quel momento.
«Non so quanto può reggere la struttura… sarebbe il
caso di vuotarla velocemente.»
«Non c’è niente di valore là dentro.»
«Ci sono i resti del forgiato che ha fatto l’attentato
alla Volta del Cielo questa sera.»
«Cazzo.»
«Posso… possiamo entrare e recuperarli? Il capitano
Jekis mi aveva autorizzato ad esaminarli.»
«Merda.»
«Allora…»
«Muovi il culo, Cannith! Ti voglio qui in trenta
secondi! Voialtri! A ventaglio!»
Lorian si risentì delle maniere del militare, non gli
doveva certo obbedienza, ma era in territorio militare, avevano appena cercato
di far fuori lui e Fender e tutte le prove che andava cercando. Spolverandosi
da una manica la polvere che si era depositata anche su di lui e il forgiato, si
incamminò al magazzino.
«Sicuro di farcela?» Chiese preoccupato Fender.
«A reggermi sulle gambe o a reggere ancora quegli
stronzi di militari?» Chiese a sua volta Lorian, con chiaro disgusto dipinto in
viso. «Questa cosa sta diventando una fregatura colossale.»
«Concordo. Chissà se è successo qualcosa di
interessante anche agli altri.»
«Mi auguro di no.»
«Ma?»
«Ma non ci credo.»
Con quelle parole entrarono nell’edificio pericolante,
schivando casse cadute a terra e rotte che avevano liberato il loro contenuto,
uno strano nuovo tipo di armi a vapore, mescolato alla paglia di imballaggio,
passarono sotto a travi rotti che erano crollati, ovunque detriti e caos.
Alcune scaffalature erano cadute addosso ad altre, vomitando a terra il loro
contenuto sparpagliato ovunque, fogli di carta svolazzavano nell’aria in
apparenza immota.
«Non si vede un accidenti.»
Subito, gli occhi si Fender si illuminarono,
producendo fasci di luce che tagliavano l’aria spessa di polvere danzante. «Meglio?»
«Sì, grazie.»
Lorian sgusciò tra i detriti, Fender li travolse
spostandoli senza troppe cerimonie, guardando incuriosito in basso quando sentì
sotto i piedi metallici delle sfere che si schiacciavano. Ne era disseminato
tutto il pavimento e le macerie che lo ingombravano. «Che sono queste?»
L’artefice, intento a guardarsi attorno alla ricerca
dei pezzi del forgiato degnò le piastrine circolari, ormai tali erano diventate
sotto il peso del forgiato e le sfere che stavano su quel che un tempo era il
pavimento. «Biglie di piombo, le si carica in quei moschetti. L’ultimo
ritrovato della tecnica: i moschetti hanno quel serbatoio, vedi? Si carica di
vapore e quanto si tira il grilletto queste biglie vengono sparate via.»
«Certo che voi umani siete incredibili: trovate sempre
nuovi modi di ammazzarvi.»
«Già. Eccolo!»
Buttato in un angolo, ricoperto di laterizi rotti e
pezzi di legno, vi era una cassa da cui spuntava un arto e una testa.
Liberatolo si assicurarono che nella cassa vi fosse tutto, Fender vi mise
dentro gli attrezzi di Lorian e si caricò del fardello, mentre procedevano in
direzione inversa. Sentì l’amico artefice raschiarsi la gola, tossendo e
sputando poi. Troppa polvere, per
lui.
Uscirono all’aperto che la tosse di Lorian era
diventata una tosse convulsa, incapace di respirare.
Uscirono changeling
e clone, silenziosi e indisturbati come erano entrati: all’invito
silente di sé stesso Sylvion aveva annuito, estraendo a sua volta le lame,
lentamente.
Si fronteggiarono in strada, uno contro l’altro, a
occhi estranei sembravano uno davanti allo specchio.
«Chi sei?» La voce di Sylvion sibilò glaciale.
«Non sei stato tu a dire che mi aspettavi da Pia? Io
ti ho solo anticipato.»
Marcus. Impossibile… a meno che… «Eri tu, dunque, nel
vicolo.»
L’altro si strinse nelle spalle, sorridendo
furbescamente. «E quindi?»
«Quindi dimmi tu. Chi sei?»
«Lo sai chi sono: Marcus.» Con quelle parole il
changeling davanti a lui rinfoderò le lame, arretrando di un passo
nell’oscurità del vicolo posteriore alle case. Lontano un cane latrava nel
silenzio della notte, la luce delle lanterne volanti apriva leggeri sprazzi
nelle vie secondarie
«E cosa vuole Marcus da noi?»
«Da voi?»
«Hai parlato anche di Fender e Lorian.»
Un baluginio di bianco nel buio tanto caro a tutti i
changeling. «E Anat no?»
«E Anat.»
L’altro ridacchiò. «Salutamela quando la vedi… e dille
che mi sto sdebitando dall’ultima volta.»
«Sdebitando?»
«Lei capirà.»
«Ma non capisco io, e sinceramente sto finendo anche
la pazienza necessaria per farlo.»
L’altro sorrise, scuotendo il capo: «Lo diceva Anat
che eri impaziente.»
«Vuoi venire al dunque, sì o no?»
Silenzio.
Una cappa di silenzio pesante come piombo calò in quel
ramo della via, quindi alla fine si accese una fiammella nel buio a illuminare
debolmente il changeling, uguale a lui, vestito come lui a parte il pastrano,
addossato al muro ad accendersi una striscia di tabacco. La brace rosseggiò
creando riflessi aranciati in quegli occhi bianchi che lo fissavano tra le
volute di fumo.
«Dì ad Anat di guardarsi le spalle: le Lame di Tenebra
vi hanno messo gli occhi addosso, specialmente a lei e all’artefice. Per questa
sera vi salverò la pelle, ma non posso mettermi contro l’organizzazione che mi
ha ingaggiato, sia chiaro.»
«Quei… maledetti… bastardi…»
«Sta calmo, non ci sono solo loro.»
La rossa brace cadde a terra e l’altro la schiacciò
con un piede. «Ora sta a voi. Cercate di non ridurre Sharn a un cumulo di
macerie, mi piace questa città.»
Altro silenzio li avvolse, ma come Sylvion si avvicinò
al punto dove Marcus si era fermato nelle ombre a parlare, si accorse che di
lui non vi era più nessuna traccia. Sorrise nel buio. Era maledettamente in
gamba, non c’era che dire. E poi… ridacchiando si avviò a un porto secondario
dove i mezzelfi facevano qualche corsa notturna non registrata per scendere al
Focolare di Bolderyn e andare da Pia.
Non c’era da stupirsi che il Trovatutto fosse così
bravo, dopotutto … era un changeling.
L’avvertimento del generale gli aveva fatto correre un
brivido gelido lungo la colonna vertebrale. Jekis lasciò che la mano che gli
artigliava il polso guidasse il suo braccio fino al bancone, l’espressione
della donna scura e foriera di guai. Grossi guai.
«Non fare cazzate, rossa.»
«Non ti preoccupare.»
Come no. La guardò saltare al di là del bancone come
se avesse avuto delle molle sotto al culo e agguantare per il vestito Arlenne
che, terrorizzata, cercava invano la fuga. Tiratala indietro la sbatté a terra
e dalla suola di uno dei suoi stivali militari uscì una lama che andò a piazzarsi
pericolosamente vicino al viso della ragazza.
«Attenta, cucciola, potresti farti male.»
La voce quasi mielosa della morfica faceva accapponare
la pelle.
«Allora, spiegami un po’. Io ti ordino un giro di qol
e tu me lo servi con un extra non richiesto.»
«No, no…»
«No? Che bisogno avevi di cambiare i bicchieri?»
«è… è…
si usa…»
Jekis si sporse. «E da quando, Arlenne? Non ti eri mai
preoccupata della cosa, prima.»
«Spu-spurius…»
Con il balzo di Anat la musica si era fermata e il
fragore di bicchieri infranti e bottiglie cadute sulle assi di legno nella
colluttazione aveva attirato l’attenzione di tutti i presenti, focalizzandola
su di loro. Cosa che Jekis odiava. Spurius uscì di lì a pochi attimi, giusto in
tempo per ascoltare le ultime violente invettive della morfica nei confronti
della povera Arlenne.
«Che cazzo succede qua? Tu! Che stai facendo alla mia
ragazza?»
Gli rispose un ringhio feroce e Jekis decise che era
arrivato il momento di intervenire prima che tutto precipitasse. «Fatti i cazzi
tuoi, Spurius. Anat, mollala.»
«Questi sono cazzi miei. Chi la sente la madre, se me
la conciate?»
«Allora la prossima volta tieni a bada la ragazza.»
Anat, furiosa, premette ancora di più il piede sul
petto della ragazza, graffiando la pelle della gola con la lama, estorcendole
un grido soffocato di orrore.
«Jekis, fa’ qualcosa!» Sbraitò Spurius, livido di
rabbia.
«Generale! Basta!»
Anat volgeva lo sguardo bruciante come ferro fuso
dall’uno all’altro. Si chinò, prese per la veste la camerierina e la sollevò di
peso, facendola volare oltre il bancone, dritta tra le braccia di Jekis che
quasi cadde dallo sgabello. Quasi.
L’uomo prese per i polsi la ragazza che tentava di
divincolarsi e dopo due ceffoni ottenne la sua remissività. «Io e te facciamo i
conti più tardi.»
Arlenne tremò di puro terrore e Jekis sorrise feroce.
Era un bene che avesse paura, anche perché era chiaro che non si rendeva conto
che le aveva appena salvato la vita. «Certo se non parlerai chiaro potrei
sempre chiedere al generale di riprendere da dove si era fermata e lasciarla
fare.»
«Jekis, maledizione, dovresti vigilare su questa
città, non intimidire le mie ragazze.»
Il capitano della guardia lanciò un’occhiata al nano
gestore del locale che gelò il sangue nelle vene a tutti coloro che ebbero modo
di vederlo. Compresa la stessa Anat che rimase con il pugno sollevato, pronto a
colpire l’impiccione.
«Stammi un po’ a sentire, mezza cartuccia, tu ora vai
a metterti una giacca e mi segui senza fare storie al comando. Perché potrei
anche pensare che c’entri pure tu in questa cosa.»
«Questa cosa… cosa?!»
Anat abbassò il pugno, in tre balzi si ritrovò alle
spalle del nano e chinatasi in avanti sussurrò ferale: «Questa cosa che io e
Jekis tendiamo a reagire molto male ai veleni.»
Spurius spaziò con lo sguardo sulla sala, livido in
volto. Quando le parole della morfica penetrarono a fondo in lui e si rese
conto che anche gli altri avventori le avevano sentite, sbiancò e tremò forte,
iniziando a sudare freddo.
Inquadrò i bicchieri di qol intatto. «I-i-impossibile.»
Il balbettio nervoso suscitò un sorriso cattivo nella
donna che accompagnava Jekis e che lui aveva chiamato “generale”. Jekis si rese
anche conto che Anat teneva tutto sotto controllo, pur non interferendo con
quello che era il suo, di ruolo. Apprezzabile gesto. Le fece un cenno e lei si
avviò all’uscita, ancheggiando sinuosa in quei pantaloni aderenti, attirando su
di sé più sguardi di quanti Jekis ne potesse sopportare.
Si schiarì la voce, quindi alzandosi in piedi dichiarò
a gran voce, attirando l’attenzione dei presenti: «Allora signori! Lo
spettacolo è finito! Tornate alle vostre carte e alle vostre troie!»
La musica inceppata al chib riprese. La ballerina,
mezza nuda, riprese a ballare impacciata. Poco alla volta tutti tornarono alle
proprie attività, abbassando lo sguardo quando capitò loro di incrociare quello
del capitano. Anche se era in borghese e non era di turno, era pur sempre uno
dei capitani della guardia cittadina e tutti lo conoscevano e lo apprezzavano, sebbene
per i più disparati motivi, nessuno dei quali legato al suo ruolo di tutore
dell’ordine.
«Spurius!»
«S-s-sì!!»
«Tappa quei bicchieri e mettimeli in un contenitore
per portarli al comando.»
Prontamente il nano si ingegnò per trovare il modo di accontentare
il capitano, quindi gli porse l’involto che quello prese con la mano libera,
tenendo tra i denti il prezioso e ormai spento sigaro di Q’Barra. Senza una
parola uscì dal locale, calciando la porta e trascinando la ragazza con sé.
Dall’altro lato della strada, appoggiata al muro, Anat
aspettava. Come la guardia uscì con prove e assassina si staccò dal muro e li
seguì, una mano dietro la schiena pronta a impugnare e a usare la propria makhaira,
vigile e attenta. Non li vedeva. Ma sapeva che c’erano: mescolati agli odori
della notte le erano arrivati alle narici gli afrori tipici di changeling che
avevano poca dimestichezza con l’acqua.
Due figure nerovestite, dalle ombre osservarono mute e
circospette la scena.
Giunto alla locanda di Pia, Sylvion si fece servire in
sala una generosa dose di arrosto con tuberi rossi, birra e un dolce per
contorno. Scelto un tavolino d’angolo defilato dal quale poteva tenere d’occhio
tutta la sala l’attraversò ignorando le occhiate diffidenti e il gesto di
tenersi il borsello o allontanarsi da lui così tipico di quella gentaglia che
non sapeva niente di lui e della sua gente, che agivano così solo in preda ai
pregiudizi.
Sorrise, risultando agli occhi degli altri avventori
ancora più sinistro, non si era camuffato da elfo semplicemente perché la
ferita aveva ripreso a dolergli e questo gli aveva causato non pochi problemi
di comprensione con l’ostessa. Aveva dovuto fare una mutazione parziale del
volto, cosa che non gli riusciva mai particolarmente bene per farsi quasi
riconoscere. Solo quando aveva messo in mostra la lama con l’elsa incisa la
nana alle dipendenze dei Ghallanda si era convinta, se per timore o se per
l’aver riconosciuto le incisioni non era dato saperlo.
Aveva scoperto quindi che Anat era rientrata ed era
anche già uscita, diretta chissà dove. Mangiò in religioso silenzio,
rimuginando su quando dettogli da quel tale, Marcus, e si fece forza a non
lavarsi le mani: quando era stato sorpreso alle spalle aveva agguantato il
braccio dell’aggressore, se davvero Anat conosceva il Trovatutto ne avrebbe
riconosciuto l’odore. Sorrise di sghimbescio, prima di ingollare alcune sorsate
di birra, pensando a un modo per convincerla ad annusarlo. Se c’era una cosa
che la donna odiava era essere trattata da cane.
Ridacchiò senza alcun apparente motivo e molti dei
commensali in sala temettero di sapere perché.
Strinsero ancora più forte le loro borse e tirarono un
sospiro di sollievo solo quando lo videro imboccare le scale, diretto alla
propria stanza.
Idioti, inveì mentalmente contro di loro il changeling,
buttando giù altre due pillole contro il dolore.
Arrivati al comando, Anat assistette
all’interrogatorio impassibile, immobile. La sua sola muta presenza poteva
essere garanzia di risposta, perché Arlenne aveva un sacro terrore di quella
donna e lei era un pericolo imminente più di chi le aveva ordinato quel gesto.
«Arlenne, ci conosciamo da tanto, giusto?»
«Sì, capitano… da tanto.»
Erano tre anni che Jekis frequentava il locale di
Spurius e da allora non era mancato una sera, stupendo all’inizio la cameriera.
«Allora spiegami perché.»
«Perché cosa?»
«Non giocare con me, ragazzina. Di là ci sono due
bicchieri di qol corretti con veleno. Non rendere la tua posizione ancora più
deleteria.»
La ragazza sospirò, disperata: «Mi uccideranno.»
«Se non parli lo farò io seduta stante. Problema:
dovrò far fuori anche Jekis e non credo l’apprezzeresti.» Intervenne glaciale
Anat.
Il capitano della guardia osservò la morfica con aria
di riprovazione: «Io l’apprezzerei ancora meno, generale.»
«Peccato.»
Jekis sorrise di nascosto, soddisfatto alla reazione
di paura della cameriera: «Allora? Se ci racconti tutto potremmo organizzarci
per difenderti.»
Arlenne non tentennò a lungo, troppo preda del panico,
specialmente quando un ringhio ferino la raggiunse. «Sono stati quelli delle
lame di tenebra. Hanno preso mia sorella e mi hanno detto che la uccideranno
sotto i miei occhi e dopo ammazzeranno anche me se non avessi messo quel veleno
nei vostri bicchieri.»
«Le lame di tenebra, eh?» Jekis era particolarmente
interessato, ma quel nome non disse nulla ad Anat, che rimase immobile e in
silenzio.
«Sì, loro.»
«Allora ti accompagnerò a casa e li aspetterò al
varco. Prima però mi dovrai dire perché volevano farlo.»
Lei scosse la testa, sconsolata. «Non lo so. Mi hanno
solamente detto di fare così se volevo vivere e se volevo rivedere mia sorella.»
«Capisco.»
«Io no.» Replicò gelida Anat, ma aveva sentito
abbastanza. Si avviò alla porta senza un saluto e Jekis riprese indisturbato il
suo interrogatorio.
Lungo il corridoio che portava all’atrio la morfica
chiese a una guardia assonnata che incrociò se sapeva chi fossero le Lame di
Tenebra e ottenne un esauriente: «Thuranni.»
Rabbuiata, tornò a passo stanco alla locanda e senza
badare alle chiacchiere di Pia prese dalle sue mani la chiave della sua stanza
e vi si diresse, con l’intenzione di farsi una bella dormita fino al mattino. Riposati si ragiona meglio, si disse.
Infilata la chiave nella toppa si avvide che la porta
non era chiusa a chiave e tirando il saliscendi della porta sfilò al contempo
la makhaira dalla fondina a schiena.
«Tranquilla, Anat, sono io.»
La voce inconfondibile di Sylvion le causò una
smorfia. «Aspettare fuori era difficile?»
«Noioso.»
«Immagino. Hai frugato per bene dappertutto?»
«Se ti fa piacere pensarlo.»
«Se scopro che l’hai fatto davvero ti uccido.»
«Lo dici sempre, ma non lo fai mai.»
«Perché finora non ho ancora avuto un buon motivo per
farlo.»
«Che donna romantica.»
«Fuori dai piedi, voglio dormire.»
«Dovrai aspettare invece.»
«Frega ‘na sega quello che dici. Fuori o ti butto
fuori io.»
«Conoscendoti non mi indirizzeresti alla porta, vero?»
«Sai che ho un debole per defenestrarti.»
«Scorbutica.»
«No, solo stanca e incazzata: hanno appena tentato di
farmi la pelle.»
«Cazzo, sono arrivato tardi.»
«Che diamine vai blaterando?»
«Ho incontrato un tale che conosci. Ma pensa te, io lo
conoscevo solo di fama.»
«Vuoi tagliare corto?»
«Marcus.»
Anat si fermò dal preparare l’occorrente per andare a
dormire alla luce della lampada che aveva acceso, girandosi finalmente a
guardarlo: per tutto il tempo si era comportata come se fosse stata sola in
stanza togliendosi la giacca e il cappello, sciogliendo i capelli e
spazzolandoli velocemente prima di intrecciarli per la notte, mettendo sopra la
cassapanca delle armi, piazzandone altre vicino al letto dove poi si era seduta
per sfilarsi gli stivali e in seguito i pantaloni, rimanendo con solo la
biancheria intima e la corta blusa. Ora lo fissava con le foglie di maas in
mano e le gambe infilate sotto le coperte.
Maas. Ma pensa
te, mastica maas per i denti. Pensò stralunato Sylvion. Insomma, lei era…
era… Anat. Donna e lupo, con tutte le sue contraddizioni.
«Vedo che ho finalmente attirato la tua attenzione.»
«Sputa il rospo.»
E Sylvion lo fece, aprendo le imposte della finestra
per far entrare l’aria fresca della sera e addossandosi al davanzale, lasciando
che le luci della parte bassa della città gli facessero da sfondo
fino al mare.
La stanza di Anat aveva innestata in una parete la canna fumaria del focolare
della grande sala comune e risultava sempre molto calda.
Anat ascoltò seria, masticando pensosa le foglie di
maas, annuendo quando il changeling accennò al debito di quel Marcus nei suoi
confronti, a confermare le parole del Trovatutto, ma senza fornire spiegazioni.
Il silenzio infine calò e un grosso sbadiglio eruppe
dalla donna e anche da Sylvion, subito contagiato. Sbadiglio che fu illuminato
da un lampo luminoso e poi accompagnato da un sordo rombo di tuono in
lontananza in direzione del mare.
Punta di Spada, alle spalle di Sylvion, si incendiò di
mille e più luci, sirene lontane presero a suonare. Anat inclinò la testa di
lato guardando incuriosita oltre il changeling che si voltò a mezzo per
osservare a sua volta. Si lasciarono sfuggire un gemito comune.
«C’è una sia pur misera possibilità che Lorian e
Fender non siano là?»
Sylvion prese da terra i pantaloni e glieli lanciò. «Parliamo
di Lorian, costruttore Cannith che ha per le mani l’occasione di studiare un
forgiato di nuova generazione, e di Fender, che praticamente gli fa da guardia
del corpo.»
Scalciando le coperte e infilandosi nuovamente
pantaloni e calze Anat lo guardò storto, allacciandosi poi le calzature lo
rimbrottò seccata: «Bastava un no.»
«No.»
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