RACCONTO: The Fate of Eberron - 7
Sylvion uscì dall’ospedale degli halfing dopo una
lunga contrattazione sul prezzo delle cure avute, contrattazione che perse
smaccatamente. Non era mai stato un grande affarista e non aveva la parlantina
sciolta che invece aveva scorto in Anat in un paio di occasioni passando con
lei per un mercato. Se poi ci si aggiungevano le fitte che gli attraversavano
il corpo scaturite dalla mutazione che aveva usato per interrogare i due padri
in attesa, la segretaria al bancone aveva avuto decisamente gioco facile con
lui. Eh già, aveva dovuto mantenere la mutazione più a lungo del previsto in
quanto i due che lo avevano soccorso si erano in seguito dilungati sulle loro
aspettative nei confronti dei nascituri.
Bah, a certa gente dovrebbero vietare di riprodursi, altroché, pensò incattivito mentre varcava il portone più alleggerito di qualche
moneta d’oro; la testa pulsava dolorosamente e braccio e petto erano
attraversati da lava incandescente. Appena tornato nella sua forma originale,
non quella elfica che teneva per mescolarsi alla gente, aveva controllato le
fasciature, punteggiate qua e là di rosso, ma non in modo preoccupante da far
pensare che i punti fossero saltati. Appena fuori si appoggiò al muro dello
stabile, accanto alla porta, estrasse con fare noncurante la boccetta di
pillole e ne estrasse due di arancioni.
Arancioni. Ah, sì, per il dolore. Quelle rosse invece per cicatrizzare in
fretta. E quelle blu per evitare infezioni. E domani devo cambiare la
fasciatura. Che scocciatura.
Perso in quei pensieri in una posa indolente mentre
agli occhi di chiunque sembrava concentrato sulle pillole, girò automaticamente
lo sguardo intorno, individuando ostacoli, vie di fuga, osservatori
inopportuni. Sorvolò sugli sguardi astiosi e diffidenti della gente che gli
passava accanto, mormorando chissà quali insulse credenze su di lui e quelli
come lui. Ingollò le pillole, fece un cenno a un mendicante riverso a terra che
chiedeva l’elemosina all’angolo della via con un vicolo laterale e, trovati i
punti di riferimento che cercava, si inoltrò in quella direzione.
Svoltato l’angolo si mosse rapido, scivolando tra le
ombre, ammantandosi di tenebra. Tirò su il cappuccio della camicia nera che
indossava sotto al pastrano e i suoi capelli bianchi scomparvero come per magia
nel nulla.
Un gemito strozzato giunse al suo fine udito e Sylvion
si immobilizzò, addossandosi al muro e divenendo quasi parte di esso tale fu
l’immobilità che raggiunse. Anche il suo respiro rallentò e si fece
superficiale al punto da risultare inudibile alle sue stesse orecchie.
Lentamente, frugando con lo sguardo e sussurrando
imprecazioni a fior di labbra, il mendicante uscì senza saperlo allo scoperto.
«Cerchi me?»
La voce suadente del changeling ottenne l’effetto
desiderato. L’uomo fece un balzo spaventato talmente grande da spiattellarsi
duramente contro il muro opposto a quello da cui un’ombra di tenebra si era
staccata, accompagnata dalla voce morbidamente letale.
«S-s-s-NO!»
Sylvion si accucciò portandosi all’altezza del suo
puzzolente inseguitore. «Io direi di sì.»
«N-n-no, ti sb-sb-sbagli! Avevo messo qua vicino una
bottiglia di qol e non la trovo più, tutto qua.»
Qol. Il torcibudella dei nani, un liquore molto in
voga nei bassifondi. Un intruglio alcolico capace di stendere anche un troll,
letteralmente. Sylvion lo conosceva fin troppo bene e se ne teneva alla larga.
Una volta sola aveva osato raccogliere la sfida a berlo d’un fiato e si era
svegliato il giorno dopo nel suo letto alla locanda senza nemmeno sapere come
ci era arrivato. Senza sapere cosa fosse successo dopo che lo aveva buttato giù
in un sorso solo. La testa aveva smesso di dolergli solo la sera, si era
trascinato i postumi della sbornia per tutto il giorno. Non un granché come
esperienza. Fece una smorfia celato nel suo cappuccio.
Sollevò la testa e i suoi occhi bianchi assomigliarono
a vuote orbite di fantasmi, rilucendo sinistramente nell’oscurità rischiarata
dal debole chiarore delle lanterne che sorvolavano le piazze circostanti fin
oltre la punta delle torri. Sorrise e il suo fu il sorriso della morte agli
occhi del mendicante che non se la fece addosso solo perché si era liberato la
vescica prima di inoltrarsi a sua volta nel vicolo scuro.
«Ti aiuto a cercarla se lo vuoi.» Si offrì soave il
changeling. C’erano solo due possibili motivi per cui quel mendicante lo
seguisse e da come tremava uno era già andato in fumo. Quindi, l’unica
spiegazione logica era che qualcuno lo avesse pagato per farlo e riferire.
«Ma no… no…»
«Perché no?»
«Ma perché…»
«Non vuoi che scopra che non è mai esistito il qol?»
«No, è che…»
Sylvion si alzò, facendo comparire come per magia una
moneta di rame. «La vuoi? Dovrebbe garantirti una mezza pinta di qol.»
L’uomo guardò chiaramente tentato dall’offerta, ma poi
scosse la testa, riprovando: «Te l’ho detto…»
Il changeling scostò un lembo del pastrano, mettendo
in mostra il lungo pugnale appeso in cintura, l’acciaio brillò sinistro
riflettendo la debole luce. Parlò gentile, con voce morbida come aveva sempre
fatto, ma le parole furono pesanti come macigni per l’uomo accovacciato a
terra: «La verità e la menzogna hanno un prezzo. Io ti offro entrambe, sta a te
scegliere.»
Manco a dirlo il mendicante si fiondò sulla moneta,
dopo esser sbiancato vistosamente. La vista acuta e adatta a guardare nel fondo
della notte di Sylvion rilevarono la cosa. Interessante,
pensò mentre lasciava ricadere il lembo del pastrano a coprire la lama.
«Un tizio mi ha detto di seguirvi, a te e ai tuoi
amici: l’uomo di latta, il Cannith e quell’altra là, quella che si è
trasformata in cane.»
«Lupo.»
«Sì, lupo, cane, fa lo stesso.»
«Continua.»
«Mi ha dato una moneta d’argento, promettendomene
un’altra se gli avessi detto dove stavate.»
«E come lo contatterai?»
«Non lo farò io, sarà lui a tornare da me.»
«Capisco.» Sylvion era intrigato. Sinceramente,
fottutamente intrigato e incuriosito. Ragionò velocemente, quindi decise di
tornare al livello inferiore alla locanda dove alloggiava con Anat. Se non era
ancora rientrata l’avrebbe attesa nella sua camera. Sorrise vacuo sotto al
cappuccio. «Allora digli che lo aspetto alla locanda di Pia. Sarò lieto di
scambiare due chiacchiere con chi mi cerca.»
Detto questo svanì nell’ombra, rimanendo invece a
osservare il mendicante sollevarsi su gambe malferme, intascare la moneta che
gli aveva lasciato e tornare verso la via principale dove, presumibilmente, si
sarebbe rimesso a chiedere l’elemosina.
Sollevò la testa a guardare il cielo scuro,
rischiarato appena dalle luci della città che nascondevano le stelle e si
chiese se fosse stato saggio lasciar andare quell’uomo, se non fosse stato
meglio eliminarlo. Ma era solo un mendicante, dopotutto, non poteva certo
impensierirlo. E poi, ora che aveva lanciato quella sfida, era il caso di
muoversi.
Si inoltrò nel vicolo, svoltò a sinistra e percorse a
passo sostenuto le viuzze strette tra le alte torri del terzo livello e sbucò
dopo poco in una zona di case basse a due o tre piani, tutte con le facciate
molto elaborate. Soppesando il sacchetto di monete e sentendosi tutto sommato
abbastanza in forze, decise di rimpinguare le proprie risorse alla vecchia
maniera.
Assicuratosi che nessuno fosse in giro, si dileguò
rapido dietro l’angolo, controllò di nuovo che nessuno potesse vederlo, aggirò
la casa scelta, quella centrale di una schiera di tre prive di cani nel piccolo
giardino antistante l’ingresso. Giunto alla porta posteriore non servì nemmeno
il grimaldello che teneva nello stivale per forzarla. Entrò a passo felpato
richiudendo pianissimo la porta alle proprie spalle e riconobbe nell’ambiente
gli odori tipici di una cucina. Abituò la vista alla maggiore oscurità rispetto
alla strada e quando fu sicuro si inoltrò nella casa. Le case di mercanti
arricchiti erano praticamente tutte uguali. Ostentavano opulente la ricchezza
accumulata e nascondevano nel posto più banale del mondo e creduto il più
sicuro l’arca di sicurezza, un armadio basso fasciato di ferro e chiuso con due
o più serrature diverse, spesso anche con una serratura magica.
Giunse alla porta della camera padronale silenzioso ed
estrasse una fialetta. Conteneva etherim, una sostanza volatile ottenuta
dall’infusione in alcol delle bacche nere di ethel, una pianta molto comune
nelle foreste di Eldeen. L’etherim era un potente sonnifero, agiva in pochi
battiti di cuore. Spezzata sotto al naso del padrone di casa e dell’eventuale
compagna di letto – che non necessariamente doveva essere la moglie – gli
avrebbe garantito ore di placido frugare nella più totale tranquillità.
La mano si allungò sulla maniglia, l’afferrò e lì si
arresto.
La luna, maestosa prima donna in cielo, inondò il
corridoio di luce argentea riversandola dal grande finestrone all’estremità
opposta.
Il fiato sul collo gli fece rizzare i capelli sulla
nuca, liberi dal cappuccio da quando era entrato in casa.
Il baluginare sotto al naso di una lama così simile a
quella che teneva agganciata dietro alla schiena lo stupì.
Qualcuno era riuscito a sorprenderlo alle spalle. Dal
colore grigiastro della pelle sfiorata dalla luce lunare doveva essere un altro
changeling, gli unici altri che potevano avere una possibilità di questo tipo.
Il mercante era stato astuto, aveva assunto come guardia notturna uno del suo
stesso stampo. Quindi corrompibile. Al giusto prezzo.
Con un sorriso sprezzante si voltò piano, tenendo le
mani bene in vista, pronto a contrattare.
Il fiato gli sfuggì di bocca, senza articolare nessun
suono, il sorriso si cristallizzò sul viso alla vista di sé stesso che gli
sorrideva sprezzante, in mano le lame in quella posa che lo portava a usarle in
quella danza letale che tanto lo aveva reso famoso.
Non fu difficile per la donna raggiungere la taverna
di Spurius, non era troppo distante dalla locanda di Pia, locata in quel
quartiere di Sharn che chiamavano il Focolare di Bolderyn. Lungo la strada era
stata avvicinata da un paio di bulli, uno aveva osato sfoderare un temperino e
sventolarlo sotto al suo naso. Ragazzini che volevano giocare a fare i cattivi.
Perché non avevano i soldi per farsi una scopata.
«Allora? Guarda che il mio amico qui ha un coltello e
lo sa usare, non lo fare innervosire fossi in te.» L’aveva anche minacciata uno
di quegli smidollati, come se non fosse stata capace di vedere da sé cosa il
suo amico stava così stupidamente sventolandole sotto al naso.
«Coltello?» Aveva replicato irridente. «Tu quel
cosetto lì lo chiami coltello? Spero tu non voglia far paragoni con il tuo
uccello, altrimenti mi vien da pensare che hai un cardellino dentro le mutande.»
Prima che potessero replicare qualcosa tutti e tre i
giovinastri si erano ritrovati una lama alla gola. Anat si era mossa fulminea e
a quello più vicino al muro aveva assestato una prima pedata in pieno petto per
poi battere il tacco a terra e far uscire dalla punta una lama che si era
avvicinata pericolosamente alla gola, mentre la suola usava come zerbino la sua
casacca mentre lo schiacciava contro il muro.
Al dongiovanni aveva regalato un graffietto
superficiale sulla guancia con la lama da lancio che aveva sfilato dalla fascia
che le cingeva la coscia e al provetto accoltellatore aveva messo sotto al naso
il suo coltello. Una makhaira, dalla lama leggermente ricurva e ansata sul
tagliente lunga mezzo braccio, finiva appuntita dopo un ingrossamento della
lama monofilare. «Questo è un
coltello, cuccioletto.»
I due erano corsi via a gambe levate, il terzo ancora
inchiodato al muro dal suo piede se l’era fatta sotto quando aveva ghignato
crudele.
Come aveva allontanato il piede con la lama di solo
pochi centimetri anche lui se l’era data a gambe. A momenti la travolgeva per
la fretta di fuggire. Sghignazzò divertita mentre apriva la porta del locale.
L’aria fumosa era carica di risa sguaiate, una musica
strappata senza molto ritmo da un chib, uno strumento a corde che venivano
colpite da dei martelletti di legno ogni volta che il suonatore pigiava un tasto.
Il bancone percorreva un intero lato della sala alla sua sinistra, gli scaffali
con bicchieri, boccali e bottiglie erano sovrastati da un lungo specchio, la
sala non molto grande contava sei tavoli tutti affollati e molti uomini erano
in piedi a gustarsi lo spogliarello che una mezzelfa stava eseguendo sulle note
discordanti del chib.
Il bancone era corredato da alcuni sgabelli e uno solo
era libero. Quello accanto a A.R. Jekis.
Il capitano della guardia si era cambiato indossando
per l’occasione una camicia candida aperta sul petto a mostrare una cicatrice,
le maniche erano state rimboccate fin sopra al gomito scoprendo così la
cicatrice da bruciatura che aveva visto spuntare dal polsino finiva oltre il
gomito. Le brache nere erano corredate dall’immancabile cinta di cuoio a doppio
giro a cui era agganciato il fodero della sciabola. Gli stivali erano gli
stessi di quella sera e la cosa non la stupiva, anche lei usava sempre gli
stessi morbidi e consunti stivali militari. Nell’insieme sembrava più giovane e
rilassato, forse ne avrebbe cavato qualcosa di interessante.
La musica non era troppo alta e il brusio concitato
degli avventori non troppo fastidioso per le sue orecchie sensibili. L’odore
acre del fumo di decine di sigari si levava a coprire il puzzo di sudore e
umanità variegata presente in quel posto. Prese atto dell’oculatezza del
capitano e della sua cortesia, la scelta di quel locale, se non proprio di
classe comunque di un livello superiore rispetto alla maggior parte delle
taverne di quel posto, non era stata casuale. L’aveva riconosciuta e da come
aveva parlato aveva avuto a che fare con i morfici, quindi sapeva bene che
rumori troppo forti la disorientavano.
Tirò un sospiro di sollievo mascherato da sorriso
solare.
A. R. Jekis si accorse di lei non appena la sua figura
si stagliò nel vano della porta. Si era fermata a studiare l’ambiente, niente
di più che un’occhiata panoramica che però doveva aver colto ogni singolo
dettaglio. Volse la testa ad ammirarla apertamente quando scese i tre gradini
dell’ingresso con un sorriso da infarto in viso.
I capelli erano raccolti in modo pratico e semplice in
una coda, nulla a che vedere con quell’acconciatura sfatta di poco prima. Anche
se non gli era dispiaciuta la visuale che aveva avuto su quel corpo tonico
drappeggiato alla meglio con quanto rimaneva del vestito elegante, si rifece
abbondantemente gli occhi anche in quel momento.
Le gambe lunghe erano fasciate in un paio di brache di
denim aderenti come una seconda pelle a evidenziare quel ‘lato B’ che già aveva
avuto modo di apprezzare e che adesso gli accese nuove fantasie. Una cameriera
piuttosto discinta gli passò accanto catturando la sua attenzione per lo spazio
di un respiro, ma poi tornò a puntare gli occhi d’acciaio sul generale,
risalendo dalle gambe allo stomaco lasciato scoperto dalla casacca corta appena
sotto al seno e dalla giubba militare in quel verde schifoso dell’esercito di
Cyre, corredata di mostrine. Aveva un tatuaggio intorno all’ombelico.
Ma guarda te, anche i morfici hanno un ombelico, si stupì di quel pensiero assurdo.
Quando lei gli si sedette accanto volgendo le spalle
al palco su cui la mezzelfa si dimenava languida contro una colonna piazzata ad
arte esibendo le proprie grazie, comprese che era inutile prendersi in giro.
Lei era quel generale.
Il più famoso, il più giovane, il più avventato e più
crudele generale che avesse calcato il suolo del Khorvaire. Si diceva che
avesse sbranato i suoi uomini per sfamarsi, sul finire della guerra, quando di
Cyre non era rimasto nient’altro che un cumulo di macerie in un deserto gemente
al vento che spirava senza sosta.
«Generale.»
«Capitano.»
Il saluto fu freddo e cortese.
«Non pensavo saresti venuta.»
Anat sorrise bieca tenendo d’occhio la sala attraverso
lo specchio. Jekis ne vide il profilo puro mentre svuotava il bicchiere e si
girava a posarlo sul bancone.
«Non vedo perché non sarei dovuta venire. Hai delle
informazioni che mi interessano, mi hai invitata per dirmele ed eccomi qui.»
Il cinquantenne rise divertito e leggermente
spiazzato. Percorse il corpo magro con uno sguardo d’acciaio brillante di
interesse di tutt’altro genere e alzò una mano a chiamare la ragazza dietro al
bancone. «Arlenne! Un giro qui per me e il generale! Il solito.»
Anat si chiese cosa potesse essere quel ‘solito’, ma
sorvolò: qualunque cosa fosse non era certamente acqua. Sfilò da un taschino un
sigaro, uno dei pochi preziosissimi sigari che si potevano trovare solo a
Q’Barra, dall’altra parte del continente. Roba di classe, l’aveva definita il
mercante che gliel’aveva procurata e sotto lo sguardo attento dell’uomo ne
tranciò un’estremità con un tagliasigari a leva che rimise nella tasca della
corta giacca militare, ultima effige insieme con il basco del suo passato.
Estrasse la pietra di Volk, nera e scheggiata, e passandovi sopra un dito dalla
piccola incavatura ne scaturì una fiammella.
Ogni gesto era calmo, studiato per studiare, per dare
l’impressione che, nonostante il posto e l’invito volgare, era lei a condurre
il gioco e non il contrario. Jekis questo l’aveva capito nel momento stesso in
cui aveva puntato lo sguardo su di lei all’entrata, sull’emblema argenteo della
testa di lupo con un teschio tra le fauci. Però,
si disse, tentar non nuoce.
Preso il bicchiere basso e largo riempito dalla
solerte cameriera fino a metà di qol, ne bevve un sorso e lasciò che il
torcibudella nanico gli infiammasse la via per lo stomaco. Anat si limitò a far
girare il liquido scuro come una notte senza luna nel bicchiere, fumando e
aspettando.
Il silenzio calò tra loro carico di aspettative, ma la
morfica aveva fatto delle attese la sua arte negli interrogatori e come
previsto fu Jekis, dopo aver finito il liquore con una seconda corposa sorsata,
a riprendere la parola: «E di cosa dovrei parlarti?»
Anat si portò il bicchiere alle labbra, aspirando
l’aroma alcolico a fondo, godendo in segreto del lieve stordimento che solo gli
effluvi di quella bevanda le dava. «Questa sera mi hai parlato di una lattina
in particola, una con troppe lame a disposizione e che da cinque anni so non
aver più senso di esistere. Ne hai parlato come se non fosse così.»
Quelli erano discorsi pericolosi da farsi in un luogo
pubblico, ma era anche vero che in quel locale gremito di gente che badava agli
affari propri erano più o meno al sicuro. «Voci che girano.»
«Approfondisci queste voci.»
«Cosa me ne verrebbe in tasca, generale?»
Anat sorrise feroce, gli occhi bruciarono come qol
appena ingerito. «Chiediti piuttosto cosa ne ricaveresti a tacere.»
Con quelle parole foriere di atrocità inespresse buttò
giù l’intera dose di liquore in un sol sorso.
Jekis fischiò ammirato nel vederla posare con cura il
bicchiere sul bancone e tirare una lunga boccata dal sigaro. Senza dare segno
di stordimento alcuno. Lui beveva il qol da quando aveva quindici anni, ma
anche ora se avesse fatto un azzardo del genere sarebbe finito lungo disteso
sotto al tavolo. Lei, invece, sembrava avesse appena buttato giù acqua fresca.
«Non me ne fotte molto di quello che pensi di poter
fare: sono sopravvissuto al fronte orientale di Cyre, là ho perso tutto.»
L’uomo fece un cenno alla cameriera, ma quella non lo vide, intenta a preparare
bibite che dispose su dei vassoi per essere portate ai tavoli. Il viso ridotto
a una maschera di duro cuoio invecchiato dagli anni e dalle esperienza s’indurì
per un attimo, prima di riaprirsi in un sorriso allegro e scanzonato, in
quell’aria rilassata che lei gli aveva visto addosso sin da quando era entrata
in quella taverna. «Vedi, a tacere avrò il vantaggio di continuare questa cazzo
di vita: un servizio tranquillo in una città tranquilla dove non succede mai un
cazzo, un paio d’ore la sera dopo il turno a bere e rifarmi gli occhi e poi una
bella scopata per concludere la giornata. La mia vita mi piace così com’è.»
Anat annuì, mise in bocca due dita e lanciò un fischio
forte che attirò l’attenzione di molti avventori e delle cameriere, tra cui
quella dietro al banco. Le indicò i due bicchieri e quella sembrò tentennare
prima di avvicinarsi, recuperare la bottiglia di qol e versare di nuovo da
bere.
«Non è detto che tu non possa continuare a fare la tua
vita.»
Posò sul bancone un sigaro, accanto al bicchiere nuovo
che mise giù la barista ritirando quelli precedenti con mani tremanti. I due si
guardarono negli occhi e sfuggì loro il riflesso scuro nello specchio di due
uomini in nero che uscivano.
«Puoi bere e fumare alla mia salute, Jekis.» Anat
sorrise invitante, pur mantenendo un certo distacco. Gli prese il mento tra due
dita e glielo carezzò con fare languido, concludendo: «E per la scopata si può
sempre trovare un accordo. Posso permettermi di pagarti la più cara puttana di
questo buco.»
Jekis aveva sentito l’eccitazione crescere, per poi
franare inesorabilmente alle ultime parole della donna. La morfica ci sapeva
fare, cazzo, glielo doveva riconoscere. Si aprì in un sorriso, prendendo il
sigaro.
«Beh, se tu non me la dai, mi dovrò accontentare.»
Anat aspirò una boccata e gli porse il proprio
tagliasigari.
Accendendosi a sua volta il sigaro e gustandone
l’aroma forte e mielato si lasciò andare a un’esclamazione di piacere. «Roba di
classe, questa…»
Anat attese, facendo di nuovo girare il liquore nel
bicchiere. Attese. E Jekis parlò, sistemandosi questa volta come lei, lo
sguardo puntato sul bicchiere. «Quello che ho sentito dire è che è rimasta in
piedi una delle due torri e che la forgia fosse in quella. E, dicono, pare che
sia stata accesa di nuovo.»
«Non è possibile.»
«Perché tu eri là?»
«Perché io, Sylvion, Lorian e Fender eravamo là. E
abbiamo fatto saltare tutto.»
«Ti dico solo quello che si dice in giro.»
«Fonti affidabili?»
«Una di queste direi che è affidabile più di altre.»
«Sarebbe?»
«Il Trovatutto.»
«Ah. Marcus.»
«Lo conosci?»
«Abbastanza. Abbiamo lavorato insieme, in un paio di
occasioni.»
«Chissà perché non mi stupisco. Sei diventata famosa
come cacciatrice di forgiati e di forge clandestine.»
«Vado dove mi porta il denaro. Bisogna pur
sopravvivere.»
«La pensiamo uguale. Quasi.»
«Quasi?» Anat sorrise, divertita di quello scambio.
«Non capisco perché ti porti dietro quei tre. Insomma,
quel Cannith…»
«Ho i miei motivi.»
«Sarebbe un peccato che ti si rivoltassero contro…
questi tuoi motivi.»
«Difficile.»
«Ah. Quindi non è perché ti fidi di loro che te li
tieni appresso alle sottane.»
Anat sorrise misteriosa, sollevando il bicchiere e
omaggiandolo di un brindisi silenzioso. «Pensala un po’ come ti pare.»
Jekis lo fece e lei se ne accorse. Ricambiò il saluto,
prese a sua volta il bicchiere. Ma come lo ebbe a
portata di bocca, la mano ferma di lei gli impedì di scolarselo. La guardò senza capire: «Ma… cosa…?»
portata di bocca, la mano ferma di lei gli impedì di scolarselo. La guardò senza capire: «Ma… cosa…?»
Anat era ferma con il bicchiere alle labbra, una furia
omicida le distorceva i bei lineamenti mentre annusava il liquore, prima di
riporre con lentezza il bicchiere intatto sul banco. La presa sul suo polso
divenne d’acciaio e l’uomo sentì le unghie di lei conficcarsi nella carne
martoriata dalla cicatrice.
Poi,
bassa e ringhiante, foriera di morte la voce del generale gli fece correre un
brivido che non volle riconoscere per paura lungo la schiena: «Metti giù quel
bicchiere, Jekis. Bere fa male alla salute.»
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