RACCONTI: Celeste e il Generale filosofo- X Capitolo
Militia est vita hominis
super terram, *
et sicut dies mercenarii dies eius.
Parvulae serpentes non
nocent.*
Il
frastuono era assordante: i genieri[1] lavorarono
a pieno regime per armare onagri[2],
scorpioni[3], arieti[4] e
testuggini[5].
Secondo
le istruzioni dell’architetto Apollodoro, numerosi frassini, di cui erano
rigogliose le foreste daciche, furono abbattuti per costruire le scale da
assedio[6]
necessarie per scalare le mura daciche, tra le più resistenti e difficili da
espugnare in cui i romani si fossero mai imbattuti.
Pietre
e dardi furono scagliati ininterrottamente lungo il perimetro della prima
fortezza.
Gli
assediati si difesero gettando pece bollente e massi sulle avanguardie romane,
ma le testuggini di robuste travi inclinate e tavolati furono rifugio sicuro per
i legionari assedianti.
Celeste
guardava spaventata la distruzione della prima fortezza da sopra il sauro nero di
Caius, stretta a lui.
“Aspettami qui” le disse l’uomo, mentre la
faceva smontare dal cavallo che nitriva agitato. Distratta dal caos distante,
anche le parole del Generale, al pari dell’agitazione dell’animale, svanirono.
Era
stata lei ad insistere per accompagnarlo all’abbattimento delle mura: si
sentiva ancora più insicura del solito, da quando era comparsa sulla scena la
principessa dacica, Adilah[7].
La sorella di Decebalo non veniva trattata
come una normale prigioniera e Celeste temeva che a Caius potesse piacere. Dopotutto
anche Traiano si era detto affascinato dalla giovane, mentre Adriano, dopo averle
rivolto una rapida occhiata, aveva esclamato laconicamente: “E’ solo una
donna”.
Cos’avrebbe
fatto Faustina se fosse stata al suo posto? Probabilmente l’amica si sarebbe
messa a cercare un qualunque auxilia con cui civettare, in barba alla situazione
e al luogo in cui si trovava.
La giovane si recò in una zona meno riparata,
ma da cui poteva spaziare con la vista sul cuore delle operazioni belliche, a
dispetto degli ordini del generale che avrebbe voluto trovarla esattamente dove
l’aveva lasciata.
Era
in Dacia da ormai cinque mesi e, in tutto quel tempo, ciò che aveva avuto da
lui erano stati solo dei baci sporadici e fin troppo brevi. Sentiva di non aver
fatto grossi passi avanti: Caius Naevius era un uomo difficile da capire, per
quel poco che rivelava di sé e dei suoi sentimenti, e più tempo passava con lui, più si rendeva conto di
quanto fosse vana ogni speranza di
conquistarlo.
Caius
Naevius Victor era duro, prepotente e temibile. Come avrebbe fatto a tenergli
testa? Quando stavano insieme si sentiva piccola e inadeguata, e nutriva sempre
la paura che si sarebbe presto stancato di lei.
Com’era
strano il destino: il primo uomo che aveva desiderato con tutta se stessa era
anche quello che manteneva di più le distanze.Era immersa in queste
considerazioni Celeste quando, seduta su una piccola altura da cui si potevano
osservare le preparazioni belliche, scorse un civile avanzare verso la sua
direzione. Non lo riconobbe subito: la distanza e il sole abbagliante le
impedivano di capire chi fosse.
Publio,
il fido attendente del generale, si era permesso di andare a fare compagnia
alla giovane amica del suo padrone, non appena l’aveva sorpresa sola e in
disparte.
La
giovane gli era sembrata triste e pensierosa, ora che credeva di non essere
vista da nessuno. In cuor suo, il vecchio attendente tifava per lei. Era certo
che se avesse perseverato sarebbe riuscita a scalfire la corazza di ferro che lui
portava come difesa anche dentro il petto, oltre che fuori.
Da
quando Celeste era entrata nella vita del suo dominus, molte cose agli occhi
del fido servitore gli erano sembrate mutate.
Il
disprezzo per il genere femminile che Caius ostentava in ogni occasione, ad
esempio, o la freddezza dei suoi modi nei riguardi di ogni donna che gli
capitasse a tiro.
Ma
questo Celeste non poteva saperlo: la giovane non aveva capito di essere più
vicina al proprio obiettivo di quanto pensasse, e forse già maturava di darsi
per vinta. Questo Publius non poteva permetterlo.
E,
a tal proposito, lo schiavo aveva deciso di raggiungerla nell’angolino erboso
dove la giovane stava seduta, sul limitar del campo in mezzo a cui si era
rintanata, e anche da quella distanza Publius scorgeva la bocca della giovane
muoversi: forse Celeste stava confidando al vento le sue pene d’amore …
«Signora»
le fece una rispettosa riverenza, non appena le fu abbastanza vicina. «Sono
venuto qui per raccontarti quello che so dell’ex moglie del mio dominus. Ti
prego di ascoltarmi».
Celeste
sgranò gli occhi, sorpresa, e restò in attesa.
Erano
passati molti mesi dall’ultima volta che aveva visto sua figlia Celeste e, da
allora, Sempronia si era sentita sempre più sola. Come qualcosa di vecchio e
che non serviva più, la donna era stata messa da parte proprio dalle persone
che per lei contavano maggiormente: il marito e la figlia.
Il
frutto del tradimento di Septimus, infatti, cresceva a vista d’occhio ogni
giorno di più, affermando con la sua presenza la morte del suo matrimonio.
L’impressione
di donna fredda e impenetrabile che Sempronia dava di sé al mondo si scontrava
ora con la fragilità di una moglie che piangeva in silenzio ogni notte per il
suo amore tradito e con l’angoscia di una madre che rimpiangeva di non avere mai
avuto un buon rapporto con la propria figlia.
Come
era già accaduto a molte donne prima di lei, la matrona romana si rendeva per
la prima volta conto di quanto la sua vita fosse stata finora devoluta
interamente al marito e di come, mancato lui, fosse rimasta priva di uno scopo.
Non
aveva mai coltivato delle amicizie sincere, e ora pagava il prezzo della sua
ingenuità: fermamente convinta che tutto sarebbe sempre rimasto immutabile nel
tempo, si era limitata a impersonare al meglio il ruolo di moglie devota e
madre severa.
Sempronia
aveva sempre disprezzato Lucilla Pompilia Valeria, classificandola come una
donna lasciva e immorale, giudicandola solo per i divorzi e la travagliata vita
sentimentale. Solo ora, che stava vivendo sulla sua pelle una situazione simile,
si rendeva conto di quanto fosse stata cieca e piena di pregiudizi.
Chiamò
una serva perché l’aiutasse ad indossare il suo vestito più bello, di un viola
acceso, un abito che nessuno avrebbe mai immaginato potesse essere di suo
gusto. Abbellì il collo con un pendente appartenuto a sua madre, e fece
tintinnare sulle sue braccia i monili più preziosi che aveva. I capelli,
forzati da anni in una crocchia severa,
li volle acconciati secondo la moda del mese. Sempronia sarebbe dunque uscita,
e avrebbe ripreso in mano la sua vita.
«Il
Padrone non parla di quel periodo volentieri e non nomina mai la sua ex moglie.
Pensa, Celeste» Publio prese con familiarità la mano della giovane tra le sue,
segnate dal tempo, continuando imperterrito a parlare: «non conosciamo nemmeno
il suo nome. Gli attuali schiavi e servitori della domus sono arrivati tutti
dopo che lei se n’era andata o, per meglio dire, fuggita di gran corsa. Tra di
noi la chiamiamo la “matrona rossa”, perché in casa abbiamo trovato alcuni
abiti che ha lasciato. Sono tutti di questo colore».
Publio
raccontava a bassa voce e a distanza ravvicinata, e da lontano qualcuno avrebbe
potuto ipotizzare che stessero cospirando qualcosa.
«Ma
cos’è successo tra di loro?” domandò curiosaCeleste.
«Non
si sa molto. Ma in giro si mormora che lei abbia cercato di avvelenarlo!”
spifferò l’intendente.
«Non
è possibile. Non può essere vero”. La ragazza si portò le mani alla bocca,
inorridita.
«E
non è tutto. Lei è fuggita per chissà dove e quindi si aggira impunita per
l’Impero, pronta a fare nuove vittime». Publio si alzò in tutta fretta,
scorgendo il suo padrone avanzare nella loro direzione. «Non dire a nessuno
quello che ti ho detto» fece per accomiatarsi il vecchio.
«Aspetta»
lo trattenne Celeste per un braccio. «Questa donna… la moglie di Caius, perché
voleva ucciderlo? Per denaro?»
Publio
si accostò all’orecchio della giovane, veloce e furtivo. «La matrona rossa è
uno spietato sicario. è stata
assoldata da qualcuno».
L’attacco
alle fortezze daciche diede i suoi frutti. Quando anche l’ultima fu espugnata
dall’esercito romano, Decebalo inviò all’Imperatore due ambascerie di pace, per
evitare un inutile spargimento di sangue.
L’imperatore
ricevette solo la seconda, quella formata da nobili daci.
«Non
hanno accettato le mie condizioni», confidò Traiano a Caius con un tono
mortalmente calmo.
«Questo
significa una sola cosa» continuò per lui il Generale filosofo. «Che la guerra
continua».
La vita dell'uomo sulla
terra è una milizia,*
e i suoi giorni simili a quelli di un
mercenario. (Libro di Giobbe, 7,1)
Le serpi da piccoline non
fanno male. (Quintiliano)
[1] Genieri: in forza alle legioni
erano in grado di costruire e schierare potenti armi collettive, in funzione
sia offensiva che difensiva. Strani soldati i genieri: alzare una solida
palizzata era il loro modo di fare la guerra. Salvo in caso di estremo
pericolo, non usavano le spade, ma picconi, pale, accette e seghe. Sulla
schiena non avevano arco e frecce, ma la sacca con le corde, i chiodi e gli
altri loro strumenti da lavoro.
[2] Onagro: L'onagro serviva a
lanciare pietre di grandi dimensioni (di decine di kg), le quali erano
alloggiate in una tasca all'estremità di un palo inserito all'interno di un
fascio di corde, che veniva portato indietro e poi rilasciato. Il lancio
avveniva in modo improvviso e violento (fino ad alcune centinaia di metri), con
una traiettoria indiretta nei confronti del bersaglio tanto che i proiettili
seguivano una parabola verso l'alto, scavalcando ostacoli e mura, prima di
piombare sul nemico. Tutto dipendeva ovviamente dalla grandezza della
struttura, dello spessore e lunghezza delle sue funi. Vegezio diceva che non
era possibile trovare arma più potente di questa. Un onagro era, inoltre, in
grado di abbattere oltre a cavalli e armati, anche le macchine avversarie onagri:
(10 per legione, ovvero 1 per coorte) L' onagro è una eccellente arma di
distanza ed è usata per distruggere i campi e le costruzioni dei villaggi
nemici.
[3] Scorpioni: Gli scorpioni erano,
secondo Vitruvio (attorno al 20 a.C.),armi destinate al lancio di dardi e
giavellotti, similmente a come le descrive Vegezio, definendole anche
"balestre a mano. Sembra che cominciarono ad essere impiegati
nell'esercito romano nella prima metà del I secolo a.C., ovvero dal tardo
periodo repubblicano. Erano di dimensioni assai più ridotte rispetto alle
baliste. Generalmente la lunghezza dei dardi di uno scorpione era
standardizzata in 3 spanne (69 cm), che potevano essere scagliati con
precisione ad una distanza di 100 metri, mentre la gittata utile era di 400
metri. Durante l'età repubblicana e Imperiale, era la norma che ogni centuria
avesse un numero tipico di scorpioni e baliste. Gli scorpioni venivano
posizionati in batterie su alture in modo da sfoltire le truppe avversarie e
fiaccare il nemico. Questo tipo di arma venne utilizzato largamente da Giulio
Cesare nella campagna militare in Gallia (es. durante l'assedio di Avarico). La
ridotta dimensione permise all'arma di essere impiegata anche su carri con gli
inizi del II secolo, prendendo così il nome di carrobalista.
[4] Arieti: L'evoluzione della
testuggine fu la “testudo arietata”, vale a dire l'unione tra due strumenti
d'assedio facilmente identificabili. In sostanza l'ariete era mosso su rulli o
ruote, e la percussione contro le mura nemiche era azionata tirando avanti e
indietro, le funi ancorate alla parte posteriore. I soldati che azionavano tale
macchina, erano a loro volta, protetti da una tettoia coperta di pelli
resistenti al fuoco. In questo modo la parte anteriore a forma di ariete veniva
sospinto contro le mura, per creare una breccia, mentre coloro che
l'azionavano, erano al riparo da dardi e pietre nemiche.
[5] Testuggini: Per testuggine (dal
latino testudo) si intendeva una macchina militare che permetteva agli
assedianti di avvicinarsi alle mura nemiche e poi lavorare alla demolizione
delle stesse, protetti da questa struttura mobile. Era di solito montata su
ruote, oltre ad essere costruita con robuste travi in legno opportunamente
inclinate e protette a loro volta da un tavolato ed uno strato di argilla, per
evitare che i massi, barili, tronchi, la pece infuocata o l'olio bollente,
lanciati dagli assediati, potessero danneggiare la struttura. Di questo tipo di
arma se ne fece largo uso durante la conquista della Dacia, come ben
testimoniato sulla Colonna Traiana durante i vari assedi alle cittadelle
daciche ed alla loro capitale Sarmizegetusa Regia.
[6]
Scale d’assedio:
Secondo
Apollodoro di Damasco, architetto
dell'epoca di Traiano ed Adriano, le scale dovevano oltrepassare il bordo del
muro di tre piedi (quasi un metro),che tradotto in termini matematici dal
Cascarino (nel suo recentissimo studio del 2008) equivaleva a dire: L = 1,15 *
H + 3, dove L=lunghezza scala e H=altezza delle mura. Il materiale, sempre
secondo Apollodoro, doveva essere di frassino, faggio, olmo o altro, purché
leggero, ma resistente. Potevano essere componibili con ogni sezione non più
lunga di 12 piedi, dove i montanti della seconda scala andavano inseriti in
quelli della prima, quelli della terza tra quelli della seconda e così via. Le
estremità inferiori andavano poi fissate ad una trave circolare lunga 15 piedi,
Non
doveva ovviamente essere né troppo lunga, né troppo corta, per evitare nel
primo caso di non poter raggiungere il parapetto nemico, nel secondo di essere
facilmente respinta dai difensori della città assediata.
[7]
Adilah: il vero nome dalla sorella di Decebalo non è giunto fino a noi, così ne
ho scelto uno io per lei, tra i nomi usati nell’attuale Romania.
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